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mercoledì 2 ottobre 2013

epica cavalleresca











giovedì 8 novembre 2012

LA PRODUZIONE IN PROSA DEL DUECENTO





La prosa in volgare si affermò più tardi della poesia, sicuramente perché la poesia veniva cantata o recitata ed era comprensibile per tutti, la prosa invece aveva bisogno di lettori cioè di persone di cultura, ma le persone istruite conoscevano bene il latino. La prosa volgare nasce nella metà del ‘200, quando nei comuni italiani la borghesia sente l’esigenza, anche per necessità pratiche, di possedere una cultura.
Così da un’esigenza pratica si passò rapidamente a una ricca produzione letteraria. Abbondante è la produzione in prosa del Duecento che, come quella in versi, è spesso in lingua latina o francese. Lo stesso "Milione" di Marco Polo, forse l'opera più famosa di quel tempo, fu dal famoso esploratore dettata in lingua d'oil al compagno di prigionia Rustichello da Pisa; e sempre in prosa francese fu composto il "Trésor", specie di enciclopedia, da Brunetto Latini (maestro di Dante), autore pure dell'opera prosaica, benché in versi settenari a rima baciata, il "Tesoretto",in cui svolge questioni dottrinali sulla creazione, sulla natura degli angeli, degli uomini, degli animali, ecc.
Sempre di natura didattica sono le numerose raccolte in volgare di sentenze e aneddoti, ma non mancano opere storiche o romanzesche o narrative come il "Libro dei sette savi" e il "Novellino".Tra le prose originali del Duecento si deve ricordate il “Novellino". Si compone di cento brevi racconti scelti durante il Trecento da una più vasta raccolta composta da un anonimo o più autori fiorentini del Duecento. Dal libro si evince che l'autore dové essere dotato di discreta cultura, di sana moralità, di profonda conoscenza dell'animo umano, di buona capacità espressiva, anche se il suo stile appare disadorno, eccessivamente essenziale, e la sua sintassi oltremodo elementare. Le fonti del "Novellino" sono le più varie, alcune riconoscibili (la Bibbia, Valerio Massimo, il "De civitate Dei" di Sant'Agostino), altre no; ma gli spunti sono sempre rielaborati in maniera personalissima. L’intento dell’autore è quello di offrire modelli di vita e di comportamento. Il maggior pregio è la lingua schiettamente toscana.

Marco Polo nasce a Venezia nel 1254 da una famiglia di mercanti e viaggiatori. Intorno al 12BO il padre e lo zio attraversano l'Asia cen­trale e giungono fino all'Estremo Oriente, alla corte dell'imperatore dei Mongoli Kublai Khan, che li tratta con cortesia e rispetto. Ritornati a Venezia, nel 1271 ripartono per l'Oriente accompagnati dal giovane Marco: il ragazzo viene accolto benevolmente dal Khan, che gli affida numerose missioni diplomatiche, consentendogli di entrare in diretto contatto con regioni sconosciute e nuove civiltà. Dopo diciassette anni trascorsi al servizio di Ku­blai Khan, nel 1295 Marco Polo fa ritorno a Ve­nezia, dove riprende l'attività di mercante. Partecipa alla guerra tra Genova e Venezia ma viene catturato nel corso della battaglia di Curzola (1298); durante l'anno trascorso in pri­gionia detta a Rustichello da Pisa il racconto dei suoi viaggi. Muore a Venezia nel 1324.
       Inizialmente, come già detto, il racconto dei viaggi di Marco Polo è scritto nella lingua d'oil, parlata nella Francia settentrionale e diffusa in Europa quasi quan­to il latino, e ha come titolo Divisament dou monde (Descrizione del mondo).
In seguito allo straordinario successo ottenuto, l'opera viene tradot­ta in volgare toscano e intitolata  libro delle meraviglie del mondo; il titolo  Milione, con cui noi la conosciamo, deriva dalla storpiatura del soprannome Emilione con cui era nota la famiglia di Marco Polo. Il Milione è una straordinaria rassegna di Paesi e di popoli asiatici tra cui spicca la dettagliata descrizione della Cina settentrionale (Catai) e meridionale, del popolo mongolo e del loro re Kublai Khan. Lo scopo dell'autore è suscitare la meraviglia del lettore, mostrandogli le "gran diversitadi delle genti' e allargando le conoscenze dell'epoca attraverso la descrizione di paesaggi esotici, usi e costumi curiosi, di­verse forme di vita sociale e familiare, credenze e superstizioni. I destinatari del libro sono tutte le persone che desiderano "sapere", e principalmente il ceto mercantile, che trova nel volume nuovi sti­moli culturali, oltre a consigli e indicazioni per la pratica del commercio. La novità dell'opera sta nel fatto che, rispetto ai resoconti di viaggio medievali, Polo basa la sua narrazione sulla verifica dei fatti e sul prin­cipio di osservazione diretta, distinguendo tra ciò che ha visto per­sonalmente e ciò che gli è stato riferito da altri.


martedì 23 ottobre 2012

tanto gentile e tanto onesta pare



Temi e motivi
Chi non conosce l'amore di Dante per Beatrice, l'amore più famoso della letteratura italiana sbocciato a Firenze negli ultimi decenni del Duecento? Un amore cantato da Dante secondo quel raffinatissimo galateo amoroso del Dolce Stil Novo come in questo celebre sonetto dove un episodio di vita quotidiana, ambientato per le strade di una Firenze medievale, si trasfigura presto in apparizione ultraterrena, non più donna ma angelo, Beatrice diventa la prova dell'esistenza di Dio, autentico miracolo in terra (...e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare).
Unico fra i cinque sensi capace di cogliere lo spettacolo offerto da questa apparizione celeste è la vista: la bellezza, la nobiltà, l'umiltà della donna sono tali che gli spettatori restano ammutoliti. In una simile atmosfera incantata risulta evidente che l'amore di Dante per Beatrice altro non è che un mezzo di elevazione spirituale. La donna, priva di connotati fisici e di attributi terreni, diviene il tramite per raggiungere Dio. E' evidente che il sonetto è intriso di profonda religiosità in quanto in tal modo, Dante e gli stilnovisti conciliano l'amore terreno con quello divino. Nel sonetto a rime incrociate (composto da due quartine e da due terzine, le scelte lessicali sono fatte per per creare la giusta atmosfera del dolce stil novo) non viene descritto l’aspetto fisico di Beatrice, per renderla spirituale e capace di migliorare gli altri avvicinadoli a Dio.Gli altri, trovandosi al cospetto di lei, subiscono cambiamenti fisici e psicologici: ammutoliscono, abbassano lo sguardo, provano ammirazione e meraviglia. Anche i verbi “mostrasi” e “pare” sono utilizzati per eliminare quella fisicità della donna e renderla spirituale, degna di contemplazione.
Aspetti metrico-stilistici
Si tratta di un sonetto formato da quattordici endecasillabi divisi in due quartine e due terzine. Le rime sono incrociate nelle quartine (ABBA) e invertite nelle terzine (CDE-EDC). Particolarmente interessante l'allitterazione presente nel primo verso dove la ripetizione del termine "tanto" oltre ad una funzione musicale, ha anche quella di accentuare la funzione della donna. Da notare, inoltre, che non sempre il verso coincide con l'enunciato logico, come nei versi 1-2 dove per comprendere la frase bisogna passare al verso successivo. Questo procedimento detto enjambement consente particolari effetti espressivi, come in questo caso dove consente di attirare subito l'attenzione del lettore su due aggettivi "gentile" ed "onesta" che meglio caratterizzano le qualità di Beatrice (donna) quando saluta. Ci sono enjambements anche tra il 7-8 verso, il 12-13 verso. Il testo affida molti dei suoi effetti all’uso delle proposizioni consecutive: il sentimento d’amore, non viene espresso in forma diretta ma soltanto attraverso l’analisi di alcune reazioni che esso provoca nel “cor gentile”. La frequenza, infine, della congiunzione coordinante «e» conferisce al testo il ritmo lento tipico della contemplazione estatica. L'intercedere della donna tra gli uomini e gli effetti mirabili che ella produce erano stati già trattati all'esempio da Guinizzelli nel sonetto "Io voglio del ver la mia donna laudare" e da Cavalcanti in "Chi e' questa che ven?"

La Vita Nuova (1292-4) fu scritta quando Dante era già sposato con Gemma Donati dal 1285. Il matrimonio era stato combinato dalle rispettive famiglie: Dante aveva solo 12 anni e Gemma apparteneva a una delle famiglie guelfe più illustri di Firenze. Ma la Vita Nova è dedicata a Beatrice. Quando al secondo verso parla di "donna mia" egli può riferirsi a Beatrice (Bice di Folco Portinari) solo poeticamente, non solo perché entrambi erano già sposati coi relativi consorti ma anche perché Beatrice era già morta di parto nel 1290, a soli 24 anni.Nella Vita Nuova Dante dice di aver visto Beatrice solo due volte: a nove e a diciotto anni. Quando lei morì, lui, disperato, si mise a studiare filosofia e si rifugiò nella lettura di testi latini, scritti da uomini che, come lui, avevano perso una persona amata. La fine della sua crisi coincise con la composizione della Vita Nuova (intesa come "rinascita").
Nella Divina Commedia Beatrice subisce un processo di spiritualizzazione e viene riconosciuta come creatura angelica (secondo gli ideali stilnovistici): rappresenta la fede che accompagna Dante nel paradiso.
Che Beatrice sia stata per buona parte il frutto della fantasia di Dante è documentato anche da un Canto di un poeta provenzale, Raimbaut,  vissuto, prevalentemente in Italia, circa un secolo prima di Dante e che canta di Donna Beatrice nella penultima strofa in modo molte simile a quello di Dante. Dante, che conosceva il provenzale e i poeti provenzali, quasi cento anni dopo scrive di Beatrice: "Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia ...". L'incipit è identico, il sentimento che muove i poeti è lo stesso, gli echi stessi che il canto del provenzale sembra evocare si possono ritrovare nei versi di Dante. La critica ha visto in Beatrice una donna angelicata. Avrebbe anche dovuto vedere un intellettuale che stava sognando una città diversa da quella in cui viveva. Una città i cui valori dominanti non fossero quelli del denaro, della carica prestigiosa, del successo personale, ma appunto dell'onestà, della gentilezza, dell'umiltà, che al massimo potevano incarnarsi in una donna, ancora cristiana, certo non in un uomo, divenuto borghese.
Un intellettuale che non sa trovare il modo per migliorare i rapporti borghesi della sua città se non proponendo a modello una donna semplice, umile, che paradossalmente dovrebbe continuare ad avere ideali del mondo rurale pur essendo figlia e moglie di uomini dell'alta borghesia. Qui Beatrice assume le sembianze di Arrigo VII, un'altra utopia in cui ingenuamente credeva il Dante politico.
 

domenica 21 ottobre 2012

I Buddha di Bamiyan




Nel marzo 2001 i talebani ordinarono la distruzione delle due statue del Buddha scolpite sulle pareti di roccia nella valle di Bamiyan, una alta 38 m e vecchia di 1800 anni, l'altra alta 53 m e vecchia di 1500 anni. L'azione fu condannata dall'UNESCO e da molte nazioni di tutto il mondo, compreso l'Iran.

L'azione - in palese contraddizione con un precedente restauro dei due capolavori, attuato dal governo talebano - fu giustificata con l'intenzione di distruggere idoli, nonostante la plurisecolare e stratificata tradizione islamica di non eliminare tracce di passate culture religiose, specialmente se valide sotto un generale profilo culturale.
La distruzione delle statue del Buddha a Bamiyan sembra quindi ricollegabile alle forti polemiche col mondo occidentale (particolarmente attento ai valori dell'arte, sacra o profana) e alle tensioni derivanti dalla politica dell'ONU collegata alla produzione dell'oppio in Afghanistan.


Chi sono veramente i Talebani?




Nel 1979 con l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’URSS, gli Stati Uniti e il Pakistan hanno finanziato scuole coraniche per formare una valida opposizione al regime comunista: da quest’esperienza si sono formati i Talebani (che in lingua pashtu significa "studenti").
Nel 1994 i Talebani sono riusciti ad occupare e conquistare le regioni meridionali dell’Afghanistan.
Hanno preso Kabul nel 1996 ed hanno costretto le autorità, il presidente Rabbani e le forze di Messud ad andare via. Così sono riusciti a salire al governo.
Oggi governano il paese attraverso il loro leader Mullah Mohamed Omar e controllano il 90% del territorio afghano. La Sharia, ossia le leggi del Corano, è la fonte ispiratrice per il governo e per l’amministrazione della giustizia di questo paese. I Talebani si fanno chiamare studenti, ma in realtà sono analfabeti: a scuola imparano a memoria i testi sacri senza conoscerne il significato; Osama bin Laden parla solo il pashtu, ma trova molte difficoltà a scriverlo; amministra i soldi dello stato, che per lo più derivano dalla vendita di pasta di oppio, e li conserva in una cassetta sotto il suo letto.
L’Afghanistan è tornato indietro con il tempo, è tornato al VII – VIII secolo d. C.; i suoi abitanti non sono più liberi, sono state abolite le feste, anche quelle di matrimonio, la televisione e le radio (esiste solo una radio che per il 90% trasmette versetti del Corano); le donne non possono portare le scarpe con i tacchi, perché distolgono e provocano gli uomini, e non possono andare a scuola; i bambini non possono far volare gli aquiloni; sono state introdotte pene quali l’amputazione degli arti.



La grande lezione di Malala




Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio sono 8 punti che i 191 paesi membri delle Nazioni Unite si sono impegnati a realizzare entro il 2015, questi obbiettivi sono:
Sradicare la povertà estrema e la fame
Rendere universale l'istruzione primaria
Promuovere la parità dei sessi e l'autonomia delle donne
Ridurre la mortalità infantile
Migliorare la salute materna
Combattere l'HIV/AIDS, la malaria ed altre malattie
Garantire la sostenibilità ambientale
Sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo
Come ho riportato spesso nei miei articoli, il SIPRI (Istituto di Ricerche per la Pace di Stoccolma) in uno studio relativo all'anno 2008 stimò che con il solo 10% dei soldi destinati alle spese militari si potevano, per quell'anno, realizzare tutti gli 8 Obbiettivi del Millennio. Molte persone percepiscono i grandi problemi del nostro pianeta come fattori importanti ma lontani dalle loro vite, altri subiscono un forte senso d'impotenza come se, nonostante ogni nostra buona azione, non si potesse far niente di concreto per intaccarli poiché tutto è in mano a volontà superiori. Eppure sono molte le iniziative da sostenere a favore della riduzione delle spese militari o per un totale disarmo. In Sardegna c'è un movimento che si batte per far conoscere quello che succede al Poligono Sperimentale e di Addestramento Interforze. Il gruppo face book Via le armi da Capo Teulada e Quirra chiede la sospensione della presenza militare e denuncia gli allarmanti dati riguardo all'inquinamento ambientale, le malattie e le morti di tumore. Molte sono le organizzazioni in Italia che si occupano di povertà, sostenibilità ambientale, malattie e parità di genere. Parlare di diritti umani è doveroso, non ha niente di astratto, è la vita, quella nostra che non è separata da quella degli altri e dall'ambiente. Vivere con obbiettivi che riguardano il miglioramento di tutti è di per sé un'azione che aumenta la qualità della nostra stessa vita. Bartolomeo Vanzetti affermava: "lo voglio un tetto per ogni famiglia, del pane per ogni bocca, educazione per ogni cuore, luce per ogni ignoranza". Circa un secolo dopo, ai nostri giorni, in Pakistan una ragazzina di 14 anni, Malala Yousafzai, dal suo blog chiede che sia garantita l'istruzione per i bambini del suo paese, le sue parole sono: "Dateci penne oppure i terroristi metteranno in mano alla nostra generazione le anni". Malala è un’attivista per i diritti umani e si batte in particolare per il diritto allo studio delle bambine, lei stessa è poco più che una bambina. Malala è convinta che l'istruzione sia un diritto primario fondamentale per la pace del suo paese. Questa ragazzina, proprio per le sue affermazioni, è ritenuta pericolosissima dal regime talebano pakistano. Il 9 ottobre scorso è stata colpita alla testa da un cecchino ed è tuttora in ospedale attaccata ad un respiratore. Ihsanullah Ihsan, portavoce dei talebani pakistani, ha rivendicato l'attentato dicendo che la ragazza "è il simbolo degli infedeli e delle oscenità'' e ha aggiunto che se Malala sopravvivesse sarà in futuro oggetto di altri attentati. Un popolo istruito dove le normali condizioni di vita sono garantite non ha certo ragione di vivere in guerra e questo lo sanno bene i talebani come qualsiasi regime o nazione che ha come scopo l'arricchimento personale tramite la vendita di anni e lo sfruttamento delle materie prime. Siamo noi che votiamo, nella seppur contorta legge elettorale del nostro paese, i nostri rappresentanti. Abbiamo il diritto di sapere quali opinione i politici abbiano verso le spese militari, abbiamo ben diritto di protestare, come ieri hanno fatto i ragazzi, contro i tagli all'istruzione e contro le assurde spese del governo come quelle riguardo l'acquisto di F35.
Malala lotta in questo momento per la sua vita, questa ragazzina ha NATURALMENTE messo a disposizione la sua esistenza per una grande causa. Pensando a questi momenti mi viene in mente la canzone dei Nomadi "Ricordati di Chico" che diceva "Non si uccide la vita, la memoria resta".
Malala ci sta dando una grande lezione, una piccola giovanissima donna che si è alzata da sola nella lotta contro chi ha anni e semina il terrore in quelle regioni e nel resto del pianeta. Non possiamo, se vogliamo coltivare la nostra umanità, essere indifferenti a questa ragazza come suggerisce Barbara Collevecchio da II Fatto Quotidiano raccontate la sua storia ai vostri figli. Parliamo di lei, facciamo circolare il più possibile la sua volontà perché, per quanto i talebani siano forti e armati, la memoria è assolutamente più potente dei loro mitra.

Sabrina Ancarola 13 ottobre 2012

venerdì 19 ottobre 2012

Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira.





In questo sonetto viene messa in evidenza la contrapposizione tra la superiorità della donna che, avanzando, fa tremare persino l’aria intorno a sé, e la difficoltà, l’impotenza dell’uomo che vorrebbe descriverla, ma non ne è capace di fronte a tanta bellezza e nobiltà.
Tale incapacità viene evidenziata a livello stilistico: la prima quartina si presenta in forma interrogativa  ed esprime lo stupore per la donna che conduce con sé Amore. Nei versi successivi prevalgono espressioni di negazione per sottolineare ciò che l’uomo non è in grado di fare di fronte alla donna. L’autore considera l’amore come la massima opportunità che l’uomo ha di nobilitarsi, ma lo vede anche come un’esperienza tragica perché,in quanto passione, la ragione è incapace di dominarlo. Di grande rilevanza quindi il ruolo delle negazioni. I due ultimi periodi del sonetto (corrispondenti alle due terzine) iniziano con l’avverbio “non”; in due casi la negazione si riferisce al verbo “contare”: ne risulta una forte insistenza sull’impossibilità, per la parola poetica, di descrivere adeguatamente l’apparizione della donna. Con questa enunciazione di una poetica dell’ineffabile, Cavalcanti si colloca agli antipodi di Guinizzelli
L’argomento centrale, già guinizzelliano,  è la sublimazione e la lode della donna; la donna è una creatura superiore in grado di essere al di sopra delle menti umane e di modificare nel poeta la visione delle altre donne. Sono molti, sia sul piano tematico che su quello formale i riferimenti a “Io voglio del ver la mia donna laudare”. Sono presenti delle differenze, infatti, se è vero che la donna appare come una figura superiore, più che apparire come un vero e proprio angelo, la donna è qui presentata come una manifestazione sensibile dell’“umiltà” e della “beltate”: manifestazione dunque di due “virtù”, di altissimi ideali. L’apparizione della donna ha, a ben vedere, conseguenze paradossali. Da un lato essa è la manifestazione sensibile di un mondo ideale e perfetto, che può essere conosciuto solo intellettualmente. Dall’altro però proprio la sua apparizione impedisce all’uomo di trascendere la percezione sensibile, di elevarsi alla conoscenza intellettuale della “umiltà” e della “beltate”. È questa appunto l’eterna sconfitta dell’uomo innamorato: egli deve confessarsi incapace di conoscere queste “virtù” proprio nel momento in cui, in qualche modo, le “vede”.Appare chiaro che l’uomo sia destinato a questa sconfitta. In primo luogo, ce lo dimostra l’insistenza sull’impossibilità di rappresentare adeguatamente con la parola l’apparizione della donna: dapprima (vv. 3-4) essa toglie la parola agli uomini che la vedono; poi (v. 6) il poeta proclama la sua personale impossibilità di descrivere (“contare”) la sensazione prodotta dal suo sguardo; infine (v. 9) l’impossibilità di “contare” non è più solo dell’io lirico, ma diviene universale (“Non si poria contar”).
E’ un sonetto con rime incrociate, secondo lo schema ABBA, ABBA, CDE, EDC.
Sul piano lessicale, è da notare il frequente ricorso a sostantivi astratti (il latinismo “chiaritate”, “umiltà”, “ira”, il provenzalismo “piagenza”, e poi “virtute”, “beltate”, “salute”, “canoscenza”).
È presente un enjambement (vv. 3-4)
Livello retorico: personificazione dell'amore, paragone della donna con tutte le altre.

lunedì 15 ottobre 2012

POESIA "Io voglio del ver la mia donna laudare"

Analisi del sonetto: 
"IO VOGLIO DEL VER LA MIA DONNA LAUDARE ".
E' un sonetto, due quartine e due terzine, e i versi rimano secondo lo schema ABAB, ABAB, CDE, CDE
In questo sonetto l'incontro con la donna e il saluto di lei forniscono  l'occasione per lodare l'amata. E la lode della donna avrà, nel Dolce Stil Novo e in Dante, importanza capitale. Tipicamente stilnovistica l'associazione di lodi fisiche (nelle quartine) e di lodi spirituali e interiori (nelle terzine).
La donna si colloca insomma in un punto decisivo di equilibrio e di mediazione tra il mondo naturale, concepito nelle sue manifestazione più splendide, e il mondo interiore, psichico e morale insieme, la donna è superiore alla natura in bellezza e in perfezione.
La donna: rende umili, converte alla fede e non lascia pensare al peccato.
Il senso più utilizzato nel sonetto è la vista. 
La tipica allegoria del Dolce Stil Novo mostra qui bene i propri ingredienti culturali: la tradizione della lirica d'amore cortese e quella siciliana. Tipicamente provenzale il riferimento alla stella diana.
Il sonetto è incentrato su tre temi: la lode, la salute e la gentilezza, che sono parte integrante dell'animo della donna. Questa è descritta come la summa di tutte le bellezze del creato, come colei che porta salute, la sua bellezza è virtù di redenzione, uno strumento di salvezza per l'uomo.
SALUS = salvezza, il saluto della donna dona salvezza.
L'amore viene personificato per rafforzarne l'immagine ed è inteso come virtù e perfezione morale.
Al verso uno, compare “donna”, che viene però considerata nella lingua latina domina, per cui “donna” come “mia padrona” e quindi compare un tema fondamentale del Dolce Stil Novo: quello della gerarchia amorosa, ossia una sottomissione dell'uomo all'amata. 
Un altro latinismo si può trovare sempre al verso uno con “laudare” dal verbo laudo.
Se ci si sposta ai versi 9 e 12 si può sottolineare una differenza tra “gentile” e “vile”, parole chiave dello Stil Novo, per cui un uomo vile non potrà mai essere gentile (e quindi amato) e viceversa.
Infine ci si può soffermare al verso 13, “vertute” che deriva da virtus, virtutis che significa forza; rappresenta la forza spirituale della donna che sovrasta qualsiasi cattivo pensiero.
Nella poesia sono presenti molte similitudini.
A differenza del medioevo la donna non è più causa del peccato ma è un angelo, la donna viene idealizzata.

giovedì 4 ottobre 2012

dal latino al volgare




La lingua italiana deriva dal latino volgare. Devi sapere, infatti, che la lingua latina presentava anticamente due forme: una forma lette­raria o scritta (latino letterario), usata dai dotti e dalle persone di condizione più elevata; e una forma volgare o parlata (latino regionale o vol­gare), usata dal volgo, ossia dal popolo e dalle persone meno colte. Ai tempi del suo massimo splendore Roma aveva unificato il suo immenso impero sia da un punto di vista politico-giuridico che lin­guistico: in una parola aveva imposto ai popoli conquistati le sue leggi e la sua lingua. Ma la lingua che i coloni e i soldati romani tra­sferivano nelle nuove terre non era di certo il latino letterario, ben­sì quello volgare, cosicché su tutto il territorio dell'impero, se da un lato era noto il latino letterario, usato per le più alte necessità della vita politica e culturale, dall'altro fioriva il latino volgare che logica­mente, a contatto con le lingue originali dei popoli conquistati, andò subendo inevitabili trasformazioni o alterazioni.
La lingua attuale deriva dall'evoluzione del latino parlato attraverso i tempi, arricchito di termini introdotti anche da popoli invasori (Goti, Longobardi, Franchi, Arabi). Sono nate così le lingue neolatine ( nuove dal latino) o romanze (romanice loqui parlare romano). L'italiano è una delle lingue neolatine o romanze così come il francese, lo spagnolo, il portoghese, il rumeno. Quando l'Impero romano cadde (476 d.C.), anche la lingua latina si suddivise in tante lingue diverse: in Italia cominciò a formarsi una nuova parlata, detta volgare perché utiliz­zata dal popolo (vulgus), diversa in ogni regione, mentre il latino rimase la lingua ufficiale delle persone colte e dell'espressione letteraria e giuridica almeno fino al XIII secolo. I primi documenti di queste nuove lingue risalgono all'IX e X secolo.

In Italia, fin dal IX secolo, abbiamo esempi di documenti scritti in una lingua che non è più latina, ma che ancora in qualche modo ri­corda le forme del latino.

Il più antico documento in tal senso è il seguente indovinello con­servato nella Biblioteca Capitolare di Verona, che risale a un periodo collocabile tra l’VIII e il IX secolo.
Se pareba boves,          Spingeva innanzi i buoi (= le dita)  alba pratalia araba,       arava bianchi prati (= la carta) albo versorio teneba, teneva un bianco aratro (= la penna) negro semen seminaba seminava nero seme. (= l'inchiostro)
Questo «Indovinello Veronese» allusivo all'atto dello scrivere è una chiara testimonianza di come la lingua latina stia per trasfor­marsi in lingua volgare. Ad esempio, i verbi latini parebat, arabat, tenebat, seminabat nella lingua volgare si sono trasformati in pare­ba, araba, teneba, seminaba. Nel testo sono presenti termini latini e altri volgari. I termini latini sono concentrati nelle ultime due righe. I termini volgari sono: pareba, araba, teneba, seminaba, in cui si è avuta la caduta della t finale; negro derivato dal latino nigrum(nero), in cui si è avuta la caduta della desi­nenza -um; albo derivato dal latino album (bianco) in cui si è avuto un cam­biamento di vocale.

Il primo documento però in cui appare chiaramente la contrapposi­zione del volgare al latino e quindi la differenza delle due lingue è il Placito di Capua  o Placito Cassinense del 960. Si tratta di una sentenza giudiziaria rela­tiva a una contesa sorta per il possesso di alcune terre fra il mona­stero di Montecassino e un certo Rodelgrimo di Aquino. Il giudice Archisi nel suo verbale, redatto come d'uso in latino, riporta la formula pro­nunciata dai testimoni per confermare il possesso trentennale di una delle due parti. Tale formula, trascritta nella lingua parlata dai testimoni, ossia nella lingua volgare, è la seguente:

Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.
(So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, le pos­sedette per trent'anni la parte, ossia il monastero, di San Benedetto.)
Dall'esame della frase è facile constatare che la lingua usata, seppur mantenga qualche traccia di latino (infatti sao deriva da scio (so); fini da fines, possette da possedit; sancti Benedicti, poi, è un genitivo lati­no; ko è volgare poiché in latino la congiunzione che non esiste; kelle è volgare, significa quelle -in latino si diceva illae- ), è nettamente “volgare”. Siamo dunque in presenza del primo documento in volgare italiano. I primi scritti in volgare nascono quindi da esigenze pratiche (testi giuridici) o sono trascrizioni di testi popolari (scongiuri, indovinelli, ecc.). tuttavia fino al XIII secolo il volgare rimane sostanzialmente una lingua orale.

mercoledì 3 ottobre 2012

DOPO IL MEDIOEVO L’EROE SI TRASFORMA





L’eroe dell’epica medioevale è il cavaliere “senza macchia e senza paura”, che combatte in difesa della fede cristiana, della patria, della giustizia. I poemi medioevali rispecchiano senz’altro la realtà sociale e culturale che li ha creati, centrata sulla figura del cavaliere considerato un campione della fede e un difensore delle cristianità contro gli infedeli.
Dopo il periodo medievale, l’ideale cavalleresco sopravvisse, ma fu lentamente svuotato del suo valore fino a ridursi, nelle corti rinascimentali, a pura esteriorità. Nel 1400-1500 con l’affermazione della civiltà umanistica e rinascimentale, la figura del cavaliere si trasforma. Egli ora, nei poemi epici, non viene più rappresentato come l’eroe per eccellenza, il depositario di tutte le virtù, bensì come un uomo, con le  debolezze, le passioni tipiche degli altri uomini. D’altra parte tale trasformazione riflette la nuova realtà e mentalità del Rinascimento, attenta a valorizzare l’uomo e i suoi sentimenti. In questo periodo inoltre la materia cavalleresca intende soddisfare le esigenze di una società aristocratica di gusti ricercati, più facile a entusiasmarsi per le narrazioni di amore e avventura, che per le vicende di guerra e di dedizione al dovere.  Nelle corti rinascimentali si continuavano ad ascoltare storie che avevano per protagonisti i cavalieri; non più però per esaltarne gli alti ideali, ma per divertire i nobili con il racconto delle loro strabilianti avventure. Ormai in quell’epoca, in cui cominciavano a diffondersi le armi da fuoco, la figura del cavaliere apparve definitivamente tramontata e con essa gli ideali a cui si ispirava.  Gli scrittori del XV e del XVI secolo capirono tale declino e lo descrissero nelle loro opere – che riprendevano i racconti epico-cavallereschi medioevali – ora con ironia, come Ludovico Ariosto nel suo Orlando Furioso; ora con nostalgia, come Torquato Tasso nella Gerusalemme Liberata; ora con ironia e nostalgia insieme, come lo spagnolo Miguel de Cervantes nel suo Don Chisciotte.
Ecco allora che Orlando, paladino di Francia, protagonista dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, non è più rappresentato come un valoroso difensore della fede, ma come un cavaliere che lascia il campo cristiano di Carlo Magno e la difesa di Parigi, travolto dalla passione amorosa per la bellissima Angelica, figlia del re del Catai.
Nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, invece, il cavaliere torna ad essere l’eroe animato da forti ideali religiosi, anche se tormentato de passioni terrene. Infine nel 1600 il Don Chisciotte dell’autore spagnolo Miguel de Cervantes segna la definitiva scomparsa del cavaliere medioevale. Don Chisciotte non è altro che una patetica figura di cavaliere che vive “da folle” avventure appartenenti a un mondo ormai passato.
Anche nei tre romanzi di Italo Calvino, del 1959,  che compongono il ciclo dei “Nostri antenati”: “Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante”, “Il cavaliere inesistente”; la figura del cavaliere medioevale è svuotata e quasi ridicolizzata. Il visconte dimezzato racconta di un valoroso cavaliere di Carlo Magno, Agilulfo, sempre pronto a combattere "per la santa causa", cioè per cristianizzare tutto il mondo attraverso le Crociate. Indossa una lucida armatura bianca, è incline alla perfezione e alla nobiltà d'animo, sempre pronto a risanare i torti, pieno di spirito e razionalità che però ha un unico difetto: non esiste! Ha una voce metallica e meccanica, è molto freddo, pignolo e perciò spesso abbastanza impaziente; è molto sincero, dice sempre la verità poiché è incapace di dire il falso. Inizialmente è molto razionale e calcolatore, pian piano riesce però a “umanizzarsi”, scoprendo di avere anch'egli dei sentimenti. Con questo libro Calvino ha voluto farci riflettere sulla condizione dell’uomo e su alcuni aspetti della realtà del nostro tempo: l’uomo d’oggi, infatti, privo d’identità, quasi inesistente, si può identificare nella figura del cavaliere inesistente. L’uomo appare di fatto incerto, insicuro, perplesso, privo di sicurezza, è vuoto dentro com’è vuota la bianca armatura d’Agilulfo. Altri temi che si possono trarre dal libro sono quello della ricerca di sé, quello della formazione dell’essere, quello del trovare il senso della vita nella realizzazione di un ideale e quello della guerra. Ma il tema fondamentale è certamente quello che non può esistere solo un’anima senza corpo, come Agilulfo o un corpo senz’anima, come Gurdulù. Solo attraverso l’unione di questi due importantissimi elementi si può parlare di vita. La figura di Rambaldo è il punto d’unione di questi due personaggi: egli, infatti, agisce secondo il corpo e si lascia guidare dalla sua anima. Morale di tutta la storia, “ ad essere s’impara”. Calvino ci narra le vicende di questo paladino, delle sue avventure  tra Francia, Scozia e Marocco e, dei suoi compagni di viaggio: la bella Bradamante (che si scoprirà poi essere la narratrice del romanzo), innamorata del cavaliere inesistente;  l’infuocato Rambaldo desideroso di vendicare il padre morto in battaglia; il giovane Torrismondo, alle prese con la ricerca dei Cavalieri del Sacro Graal e, lo scudiero di Agilulfo, Gurdulù. Nella caratterizzazione di questo personaggio viene palesata la genialità di Calvino: questi è infatti all’opposto del cavaliere inesistente. Gurdulù è un pazzo con il quale è praticamente impossibile avere qualsiasi tipo di comunicazione; lui, al contrario di Agilulfo, esiste, ma non sa di esserci. Il tutto viene descritto alla maniera di Calvino, in un Medioevo fiabesco, pregno di ironia e di grandi temi affrontati con la leggerezza di chi è capace di raccontare davvero.
Questo racconto vuole in realtà rappresentare una realtà sociale, cioè la conquista dell’essere, oggi divenuta molto difficile visto tutti i modelli che ci vengono proposti. Agilulfo che in verità era “vuoto” rappresenta la società di oggi, in cui l’uomo è sempre più “vuoto”, più superficiale e attaccato alle cose frivole come se fosse privo di qualcosa: ma non di qualcosa di piccolo ed insignificante ma probabilmente quello che si va sempre più dimenticando sono i valori fondamentali e basilari come lo può essere importante e basilare un corpo per un cavaliere. L’autore quindi, ci parla dell’uomo moderno, della sua solitudine e della totale impossibilità di autenticità. Temi come quello delle maschere, dell’inconsistenza, delle nevrosi corrono per le pagine di questo romanzo insieme a saraceni e paladini, a conventi e a giochi di parole; parole  mai difficili ma usate con la maestria di chi sa bene come farci venire voglia di girare pagina fino alla fine. Citando lo scrittore stesso:  “la pagina ha il suo bene solo quando la volti e c’è la vita dietro che spinge a scompigliare tutti i fogli del libro. La penna corre spinta dallo stesso piacere che ti fa correre le strade

domenica 30 settembre 2012

La Canzone dei Nibelunghi




Sull'esempio delle chanson de geste francesi, in area germanica viene composta la Canzone dei Nibelunghi, un poema in versi redatto nel Xlll secolo in volgare tedesco da un autore anonimo che riprende e orga­nizza antichi miti e leggende: nell'area nord europea queste narrazioni leggendarie di carattere epico basate su tradizioni popolari vengono det­te saghe.
L'opera è suddivisa in 39 canti costituiti da quartine (strofe di quattro versi] in rima baciata (AA BB] ed è ambientata nel v secolo d.C. nel ter­ritorio che costeggia il corso del fiume Reno. Essa è strutturata in due ampi nuclei narrativi, il primo dei quali ha come protagonista l'eroe Sig­frido e si conclude con la sua uccisione, mentre il secondo ruota intor­no alla moglie Crimilde e al suo progetto di vendicare la morte dell'amato.
La Canzone dei Nibelunghi ha una grande diffusione popolare, e grazie al ritrovamento di antichi manoscritti la sua fama cresce a partire dal XVlll secolo raggiungendo il suo apice nel Novecento, quando il compo­sitore Richard Wagner si ispira a essa per il suo ciclo di quattro dram­mi musicali intitolato L'anello del Nibelungo.
Protagonisti della Canzone dei Nibelunghi.
A differenza dei personaggi delle chanson de geste francesi, i protagonisti della Canzone dei Nibelunghi appaiono psicologicamente complessi e sono ca­ratterizzati da passioni violente e intense che spin­gono le loro azioni alle estreme conseguenze.
Brunilde è una delle valchirie di Odi­no, le fanciulle guerriere che affian­cano il re degli dèi. Regna in Islanda, è dotata di po­teri magici, è un'esperta guerriera e sottopone i suoi pretendenti a prove durissime. Quando scopre l'inganno di Sigfrido si vendica in modo terribile.
Crimilde è la sorella del re dei Burgundi Gunther. Sposa Sig­frido nonostante una profezia le abbia predetto la fine pre­matura dell'uomo e alla sua morte accetta le nozze con il re degli Unni Etzel (Attila). Inizialmente timida e gentile, dopo l'uc­cisione di Sigfrido è ani­mata da un violento spirito di vendetta.
 Gunther è re dei Burgundi e fratello di Crimilde. Ottiene la mano di Brunil­de grazie all'aiuto di Sigfrido a cui dà in sposa la sorella, ma tradisce l'an­tico compagno per sottrargli il tesoro dei Nibelunghi. È un uomo debole, insicuro e mol­to avido.
        Hagen vassallo di Gunther, si fa ri­velare da Crimilde il punto debole di Sigfrido e lo uccide a tradimento, poi seppellisce il tesoro dei Nibe­lunghi nel Reno per evitare che la donna lo usi per realizzare la sua ven­detta.
Sigfrido è un discendente del capo degli dèi Odino. Quando si immerge nel sangue del drago Fafnir diventa invulnerabile in tutto il corpo tranne che in un punto della schiena su cui si è po­sata una foglia. Aiuta Gunther a con­quistare Brunilde, sposa Crimilde e viene ucciso da Hagen. È giovane e bello e simboleg­gia il coraggio, la lealtà, la ge­nerosità e l'altruismo.
La trama
Sigfrido, figlio del re della regione del basso Reno, parte per impossessarsi dell'immenso tesoro dei Nibelunghi, una stirpe di nani che vive sotto ter­ra e conosce i segreti della fusione del ferro: nel corso del­la sua impresa Sigfrido sottrae al nano Alberico un cap­puccio magico che lo rende invisibile e gli dà la forza di dodici guerrieri, uccide il drago Fafnir e si bagna  nel suo sangue diventando quasi completamente invulnerabile, trannein un punto tra le scapole dove si è posata una foglia.. Conquistato il tesoro dei Nibelunghi, Sigfrido giunge alla corte dei Burgundi (stanziati lun­go il corso del fiume Reno), dove cerca di ottenere la mano di Crimilde, la sorella del re Gunther nota per la sua bellezza. Per raggiungere il suo scopo promette a Gun­ther di aiutarlo a conquistare la crudele regina d'Islanda Brunilde, che sottopone i suoi pretendenti a terribili prove di for­za e di coraggio.
Durante il torneo Sigfrido si rende invisi­bile e sconfigge Brunilde, costringendo­la a sposare Gunther che crede il vero vin­citore della sfida. Grazie alla sua impre­sa anche Sigfrido può sposare Crimilde e tornare con lei nella sua terra. Trascorsi dieci anni, le due coppie si ri­trovano, ma nel corso di una violenta lite Crimilde rivela a Brunilde l'inganno che si cela dietro le sue nozze, suscitando in lei un furioso spirito di vendetta. L'odio nei confronti di Sigfrido dilaga e coin­volge anche Gunther, che vuole elimina­re l'antico alleato per impadronirsi del suo tesoro; quando il vassallo Hagen scopre il suo punto debole Sigfrido viene ucciso e i due rubano il tesoro dei  Nibelunghi, na­scondendolo nel letto del fiume Reno. Rimasta vedova, Crimilde accetta di spo­sare il re degli unni Etzel (Attila) ma non riesce a vendicare la morte del primo marito; dodici anni dopo, in occasione della nascita del primoge­nito, invita i Burgundi alla sua corte e durante i festeggiamenti li fa ster­minare tutti.
Solo Hagen e Gunther vengono risparmiati e sono condotti da Crimilde che, dopo aver fatto decapitare il fratello, chiede ad Hagen di svelarle il luogo dove è nascosto il tesoro.
Al suo rifiuto, Crimilde decapita Hagen con la spada di Sigfrido, ma vie­ne uccisa a sua volta da Ildebrando, un maestro d'armi degli Unni indi­gnato dalla crudeltà della donna: la conclusione del poema realizza un'an­tica profezia secondo cui l'oro dei Nibelunghi è maledetto e procura mor­te e rovina a chi cerca di possederlo.

La storia
Nel poema gli elementi mitici e leggendari risalenti alla tradizione ger­manica e scandinava si intrecciano a un nucleo storico che viene riela­borato in modo fantasioso.
Nella prima metà del v secolo il popolo dei Burgundi conquista la riva si­nistra del Reno in precedenza controllata dai Romani e vi si insedia sta­bilmente. Qualche decennio dopo i Burgundi vengono attaccati e scon­fitti dagli Unni, una popolazione nomade e guerriera proveniente dall'Asia e guidata da Attila. I superstiti sono costretti a spostarsi verso ovest, nel territorio dell'attuale Francia che da loro prende il nome di Borgogna. Lo sterminio dei Burgundi durante i festeggiamenti alla corte degli Unni rappresenterebbe quindi in modo simbolico la fine dell'egemonia bur­gunda e l'affermarsi nel loro territorio di un nuovo popolo di domina­tori.
Nella Canzone dei Nibelunghi ritroviamo diversi temi tipici dei poemi ca­vallereschi, quali l'esaltazione del coraggio e della forza fisica e l'inter­vento di forze magiche e soprannaturali nelle vicende umane
Ma l’opera è un’epopea pagana che rappresenta un mondo feroce, crudele, spietato in cui i sentimenti dominanti sono: l’odio, l’invidia, il desiderio di potere e la sete di vendetta. E’ questo un valore cultu­rale specifico delle antiche popolazioni germaniche, lo spirito di ven­detta spinge Brunilde a far uccidere Sigfrido e Crimilde a provoca­re lo sterminio del suo stesso popolo.
La legge germanica prevede infatti che chi ritiene di essere stato dan­neggiato da qualcuno possa vendicarsi con un'azione personale, per co­stringere chi gli ha procurato il danno a espiare la propria colpa. Que­sto meccanismo si chiama faida e può coinvolgere due individui, ma an­che due clan (famiglie allargate) o addirittura due territori: per questo motivo le azioni compiute da Brunilde e Crimilde, che a noi paiono cru­deli ed eccessivamente violente, sono invece perfettamente coerenti con i valori e la cultura della società in cui esse vivono.
L’unico personaggio che non si macchia di delitti e viltà è Sigfrido che rappresenta il nobile e perfetto cavaliere, valoroso, generoso e leale, dotato di tutte le virtù tipiche del mondo cortese e cavalleresco del XIII secolo

Il Cantare del mio Cid: il più importante poema epico spagnolo.



Il poema del mio Cid  è il più importante poema epico spagnolo e, come  la Chanson de Roland, celebra la difesa della cristianità occidentale contro gli arabi invasori.
Ne è protagonista Rodrigo Diaz de Vivar, che è realmente vissuto e che è considerato un eroe nazionale per aver compiuto straordinarie imprese contro glia Arabi che occupavano la Spagna. Rodrigo Diaz conte di Bivar, meglio conosciuto con il nome di Cid  Campeador, nacque, intorno al 1040 d.C., a Bivar, un paesino vicino a Burgos nel regno di Castiglia. Proveniva da una famiglia della piccola nobiltà castigliana. Crebbe  alla corte del Re di Castiglia ed ebbe una buona educazione, come si addiceva ai figli della nobiltà. La leggenda vuole che al momento del suo battesimo un monaco gli regalasse il cavallo che poi lo accompagnò in tutte le sue avventure: il famoso Babieca.
Il nome El Cid Campeador gli venne attribuito più avanti. È composto da due parti: El Cid, nomignolo datogli dagli arabi e che significa "Il signore" in una lingua mista di spagnolo e arabo, Campeador, “il campione", invece, gli venne dato dagli spagnoli dopo le sue  vittorie. Questo soprannome, quindi, dimostra che il personaggio godeva del rispetto e dell'ammirazione sia tra gli spagnoli che tra gli arabi.
Come la Chanson de Roland è il poema della cristianità e delle gesta dei paladini in difesa della patria, questo è il poema della fedeltà assoluta al proprio re, che viene mantenuta nonostante le amarezze e le delusioni.
Il protagonista, Rodrigo Diaz de Bivar detto il Cid Campeador (signore del campo di battaglia), è un vassallo di re Alfonso VI di Castiglia che, all'età di quarant'anni circa, viene accusato ingiu­stamente di essersi appropriato di somme spettanti al re e viene esiliato dopo la confisca dei suoi beni. Il Cid incarna l'ideale del perfetto vassallo fedele e one­sto anche se umiliato. Messo al bando, compie imprese in nome del re, conquista castelli e territori e attira sempre nuovi seguaci. Si impadronisce della città di Valenza, creando un nuovo feudo cristiano, e a ogni nuova conquista invia doni al re chiedendone il perdono, che infine giunge. Il re stesso esorta Rodrigo Diaz a concedere la mano delle sue figlie a due principi eredi della grande casa feudale di Carriòn, che in realtà mirano soltanto alle ricchezze del Cid. Questi accontenta il re, anche se ritiene indegni i due futuri generi. Celebrato il matrimonio, i due infanti di Carriòn nel con­durre le spose nella propria terra le brutalizzano e le abbandona­no in un bosco, ritenendo disonorevole il matrimonio con le figlie di un esule. Ma il Cid si vendica chiedendo, di fronte all'assemblea dei grandi di Spagna, la restituzione del patri­monio consegnato ai generi. Il re concede giustizia e le figlie sposeranno in seguito i principi di Navarra e di Aragona e diventeranno regine.
Questa è la trama del poema. Le vicende sono storiche ma trasfigurate dalla fantasia popolare.
Anche di questo testo non si conosce con sicurezza l'autore; probabilmente si trattava di un cantore girovago vissuto nel XII secolo, cinquant’anni dopo la morte del Cid.
Tizona, la spada dell'eroe spagnolo è tuttora conservata a Madrid nel museo dell'esercito. Grande fama ha in Spagna anche il cavallo del Cid, Babieca, a cui sono stati dedicati monumenti e leggende.
Il Cantare del mio CId: il poema
Il poema del mio Cid è un poema epico formato da 3733 versi di un autore anonimo risalente al 1140, è considerato il primo documento letterario spagnolo perché scritto in antica lingua castigliana da cui deriva lo spagnolo moderno. Il manoscritto fu ritrovato soltanto alla fine del Settecento, privo delle prime pagine, recava la data del 1307 e il nome di Peter Abbat, un giullare o forse un copista.
Il poema narra fatti fondati sulla realtà storica, anche se ampiamente romanzati, e si compone di tre canzoni (cantares):la canzone dell’esilio (El cantar del destriero),la canzone delle nozze (El cantar de las bodas) e la canzone dell’oltraggio di Corpes (El cantar de la afrenta de corpes).
Nella prima parte Rodrigo Diaz (El Cid Campeador), vassallo del re, viene accusato da cortigiani maligni di essersi appropriato di una parte dei tributi dovuti dai mori ad Alfonso VI. Esiliato dal re,lascia la moglie Jimena e le figlie Elvira e Sol nel monastero di Gardena e vaga per la Spagna con un gruppo di amici fidati, compiendo imprese a danno dei mori fino alla riconquista di Valencia. Nella seconda parte le sue figlie vanno in spose agli infanti di Càrion, due uomini senza scrupoli, che, umiliati dal Cid durante una festa di corte, nella terza parte del poema, decidono di vendicarsi oltraggiando le loro spose e lasciandole in preda alle belve feroci. Le due donne vengono poi salvate da Felez Munoz nipote del Cid, il quale sfida i due infanti a duello e li uccide. Il poema si conclude con il Cid che riottiene le sue terre, mentre le figlie vanno in spose ad altri due infanti di più nobile carattere.
Il Cantare del mio CId: i temi fondamentali
Il Cantare del Cid celebra innanzi tutto le gesta eroiche dei combattenti della Reconquista.
Il poema permette, inoltre, di comprendere i valori morali, le virtù tipiche della società feudale di quel tempo come:
-         il senso dell’onore e della giustizia;
-         la fedeltà e la lealtà del cavaliere verso il proprio signore e il proprio sovrano;
-         la fede in Dio