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mercoledì 2 ottobre 2013
giovedì 8 novembre 2012
LA PRODUZIONE IN PROSA DEL DUECENTO
La prosa in volgare si affermò più
tardi della poesia, sicuramente perché la poesia veniva cantata o recitata ed
era comprensibile per tutti, la prosa invece aveva bisogno di lettori cioè di
persone di cultura, ma le persone istruite conoscevano bene il latino. La prosa
volgare nasce nella metà del ‘200, quando nei comuni italiani la borghesia sente
l’esigenza, anche per necessità pratiche, di possedere una cultura.
Così da un’esigenza pratica si
passò rapidamente a una ricca produzione letteraria. Abbondante è la produzione
in prosa del Duecento che, come quella in versi, è spesso in lingua latina o
francese. Lo stesso "Milione"
di Marco Polo, forse
l'opera più famosa di quel tempo, fu dal famoso esploratore dettata in lingua
d'oil al compagno di prigionia Rustichello
da Pisa; e sempre in prosa francese fu composto il
"Trésor", specie di enciclopedia, da Brunetto Latini (maestro di Dante), autore pure
dell'opera prosaica, benché in versi settenari a rima baciata, il "Tesoretto",in cui svolge
questioni dottrinali sulla creazione, sulla natura degli angeli, degli uomini,
degli animali, ecc.
Sempre di natura didattica sono le
numerose raccolte in volgare di sentenze e aneddoti, ma non mancano opere
storiche o romanzesche o narrative come il "Libro dei sette savi" e
il "Novellino".Tra le prose originali del Duecento si deve ricordate
il “Novellino".
Si compone di cento brevi racconti scelti durante il Trecento da una più vasta
raccolta composta da un anonimo o più autori fiorentini del Duecento. Dal libro
si evince che l'autore dové essere dotato di discreta cultura, di sana
moralità, di profonda conoscenza dell'animo umano, di buona capacità
espressiva, anche se il suo stile appare disadorno, eccessivamente essenziale,
e la sua sintassi oltremodo elementare. Le fonti del "Novellino" sono
le più varie, alcune riconoscibili (la Bibbia, Valerio Massimo, il "De civitate
Dei" di Sant'Agostino), altre no; ma gli spunti sono sempre rielaborati in
maniera personalissima. L’intento dell’autore è quello di offrire modelli di
vita e di comportamento. Il maggior pregio è la lingua schiettamente toscana.
Marco Polo nasce a Venezia nel 1254 da una famiglia di mercanti e viaggiatori. Intorno
al 12BO il padre e lo zio attraversano l'Asia centrale e giungono fino
all'Estremo Oriente, alla corte dell'imperatore dei Mongoli Kublai Khan, che li
tratta con cortesia e rispetto. Ritornati a Venezia, nel 1271 ripartono per
l'Oriente accompagnati dal giovane Marco: il ragazzo viene accolto benevolmente
dal Khan, che gli affida numerose missioni diplomatiche, consentendogli di
entrare in diretto contatto con
regioni sconosciute e nuove civiltà. Dopo diciassette anni trascorsi al servizio di Kublai
Khan, nel 1295 Marco Polo fa ritorno a Venezia, dove riprende l'attività di mercante. Partecipa alla guerra tra Genova e Venezia ma viene catturato nel corso della battaglia di Curzola (1298);
durante l'anno trascorso in prigionia detta a Rustichello da Pisa il racconto
dei suoi viaggi. Muore a Venezia nel 1324.
Inizialmente,
come già detto, il racconto dei viaggi di Marco Polo è scritto nella lingua d'oil, parlata
nella Francia settentrionale e diffusa in Europa quasi quanto il latino, e ha
come titolo Divisament dou monde (Descrizione
del mondo).
In seguito allo straordinario
successo ottenuto, l'opera viene tradotta in volgare
toscano e intitolata libro delle
meraviglie del mondo; il titolo Milione, con cui
noi la conosciamo, deriva dalla storpiatura del soprannome Emilione con cui
era nota la famiglia di Marco Polo. Il Milione è una
straordinaria rassegna di Paesi e di popoli asiatici tra cui spicca la dettagliata
descrizione della Cina settentrionale (Catai) e meridionale, del popolo mongolo
e del loro re Kublai Khan. Lo scopo dell'autore è suscitare la meraviglia
del lettore, mostrandogli le "gran diversitadi delle
genti' e allargando le conoscenze dell'epoca attraverso la
descrizione di paesaggi esotici, usi e costumi curiosi, diverse forme di vita
sociale e familiare, credenze e superstizioni. I destinatari del libro sono
tutte le persone che desiderano "sapere", e principalmente il ceto
mercantile, che trova nel volume nuovi stimoli culturali, oltre a
consigli e indicazioni per la pratica del commercio. La novità dell'opera sta
nel fatto che, rispetto ai resoconti di viaggio medievali, Polo basa la sua
narrazione sulla verifica dei fatti e sul principio
di osservazione diretta, distinguendo
tra ciò che ha visto personalmente e ciò che gli è stato riferito da altri.
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martedì 23 ottobre 2012
tanto gentile e tanto onesta pare
Temi e motivi
Chi non conosce l'amore di Dante
per Beatrice, l'amore più famoso della letteratura italiana sbocciato a Firenze
negli ultimi decenni del Duecento? Un amore cantato da Dante secondo quel
raffinatissimo galateo amoroso del Dolce Stil Novo come in questo
celebre sonetto dove un episodio di vita quotidiana, ambientato per le strade
di una Firenze medievale, si trasfigura presto in apparizione ultraterrena, non
più donna ma angelo, Beatrice diventa la prova dell'esistenza di Dio, autentico
miracolo in terra (...e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a
miracol mostrare).
Unico fra i cinque sensi capace di cogliere lo spettacolo offerto da questa apparizione celeste è la vista: la bellezza, la nobiltà, l'umiltà della donna sono tali che gli spettatori restano ammutoliti. In una simile atmosfera incantata risulta evidente che l'amore di Dante per Beatrice altro non è che un mezzo di elevazione spirituale. La donna, priva di connotati fisici e di attributi terreni, diviene il tramite per raggiungere Dio. E' evidente che il sonetto è intriso di profonda religiosità in quanto in tal modo, Dante e gli stilnovisti conciliano l'amore terreno con quello divino. Nel sonetto a rime incrociate (composto da due quartine e da due terzine, le scelte lessicali sono fatte per per creare la giusta atmosfera del dolce stil novo) non viene descritto l’aspetto fisico di Beatrice, per renderla spirituale e capace di migliorare gli altri avvicinadoli a Dio.Gli altri, trovandosi al cospetto di lei, subiscono cambiamenti fisici e psicologici: ammutoliscono, abbassano lo sguardo, provano ammirazione e meraviglia. Anche i verbi “mostrasi” e “pare” sono utilizzati per eliminare quella fisicità della donna e renderla spirituale, degna di contemplazione.
Aspetti metrico-stilistici
Unico fra i cinque sensi capace di cogliere lo spettacolo offerto da questa apparizione celeste è la vista: la bellezza, la nobiltà, l'umiltà della donna sono tali che gli spettatori restano ammutoliti. In una simile atmosfera incantata risulta evidente che l'amore di Dante per Beatrice altro non è che un mezzo di elevazione spirituale. La donna, priva di connotati fisici e di attributi terreni, diviene il tramite per raggiungere Dio. E' evidente che il sonetto è intriso di profonda religiosità in quanto in tal modo, Dante e gli stilnovisti conciliano l'amore terreno con quello divino. Nel sonetto a rime incrociate (composto da due quartine e da due terzine, le scelte lessicali sono fatte per per creare la giusta atmosfera del dolce stil novo) non viene descritto l’aspetto fisico di Beatrice, per renderla spirituale e capace di migliorare gli altri avvicinadoli a Dio.Gli altri, trovandosi al cospetto di lei, subiscono cambiamenti fisici e psicologici: ammutoliscono, abbassano lo sguardo, provano ammirazione e meraviglia. Anche i verbi “mostrasi” e “pare” sono utilizzati per eliminare quella fisicità della donna e renderla spirituale, degna di contemplazione.
Aspetti metrico-stilistici
Si tratta di un sonetto formato
da quattordici endecasillabi divisi in due quartine e due terzine. Le rime sono
incrociate nelle quartine (ABBA) e invertite nelle terzine (CDE-EDC).
Particolarmente interessante l'allitterazione presente nel primo verso
dove la ripetizione del termine "tanto" oltre ad una funzione
musicale, ha anche quella di accentuare la funzione della donna. Da notare,
inoltre, che non sempre il verso coincide con l'enunciato logico, come nei
versi 1-2 dove per comprendere la frase bisogna passare al verso
successivo. Questo procedimento detto enjambement consente particolari
effetti espressivi, come in questo caso dove consente di attirare subito
l'attenzione del lettore su due aggettivi "gentile" ed "onesta"
che meglio caratterizzano le qualità di Beatrice (donna) quando saluta. Ci sono
enjambements anche tra il 7-8 verso, il 12-13 verso. Il testo affida
molti dei suoi effetti all’uso delle proposizioni consecutive: il sentimento
d’amore, non viene espresso in forma diretta ma soltanto attraverso l’analisi
di alcune reazioni che esso provoca nel “cor gentile”. La frequenza, infine,
della congiunzione coordinante «e» conferisce al testo il ritmo lento tipico
della contemplazione estatica. L'intercedere della donna tra gli uomini e gli
effetti mirabili che ella produce erano stati già trattati all'esempio da Guinizzelli
nel sonetto "Io voglio del ver la mia donna laudare" e da Cavalcanti
in "Chi e' questa che ven?"
La Vita Nuova (1292-4)
fu scritta quando Dante era già sposato con Gemma Donati dal 1285. Il
matrimonio era stato combinato dalle rispettive famiglie: Dante aveva solo 12
anni e Gemma apparteneva a una delle famiglie guelfe più illustri di Firenze. Ma la Vita Nova è dedicata a Beatrice. Quando al secondo verso parla di
"donna mia" egli può riferirsi a Beatrice (Bice di Folco Portinari)
solo poeticamente, non solo perché entrambi erano già sposati coi relativi
consorti ma anche perché Beatrice era già morta di parto nel 1290, a soli 24 anni.Nella Vita Nuova Dante
dice di aver visto Beatrice solo due volte: a nove e a diciotto anni. Quando
lei morì, lui, disperato, si mise a studiare filosofia e si rifugiò nella
lettura di testi latini, scritti da uomini che, come lui, avevano perso una
persona amata. La fine della sua crisi coincise con la composizione della Vita
Nuova (intesa come "rinascita").
Nella Divina Commedia
Beatrice subisce un processo di spiritualizzazione e viene riconosciuta come
creatura angelica (secondo gli ideali stilnovistici): rappresenta la fede che
accompagna Dante nel paradiso.
Che Beatrice sia stata per buona
parte il frutto della fantasia di Dante è documentato anche da un Canto di un
poeta provenzale, Raimbaut, vissuto, prevalentemente in Italia, circa un secolo prima di
Dante e che canta di Donna Beatrice nella penultima strofa in modo molte simile
a quello di Dante. Dante, che conosceva il
provenzale e i poeti provenzali, quasi cento anni dopo scrive di Beatrice:
"Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia ...".
L'incipit è identico, il sentimento che muove i poeti è lo stesso, gli echi
stessi che il canto del provenzale sembra evocare si possono ritrovare nei versi di Dante. La critica ha visto
in Beatrice una donna angelicata. Avrebbe anche dovuto vedere un intellettuale
che stava sognando una città diversa da quella in cui viveva. Una città i cui
valori dominanti non fossero quelli del denaro, della carica prestigiosa, del
successo personale, ma appunto dell'onestà, della gentilezza, dell'umiltà, che
al massimo potevano incarnarsi in una donna, ancora cristiana, certo non in un
uomo, divenuto borghese.
Un intellettuale che non sa
trovare il modo per migliorare i rapporti borghesi della sua città se non
proponendo a modello una donna semplice, umile, che paradossalmente dovrebbe
continuare ad avere ideali del mondo rurale pur essendo figlia e moglie di
uomini dell'alta borghesia. Qui Beatrice assume le sembianze di Arrigo VII,
un'altra utopia in cui ingenuamente credeva il Dante politico.
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domenica 21 ottobre 2012
I Buddha di Bamiyan
Nel marzo 2001 i talebani ordinarono la distruzione delle due statue del Buddha scolpite sulle pareti di roccia nella valle di Bamiyan, una alta 38 m e vecchia di 1800 anni, l'altra alta 53 m e vecchia di 1500 anni. L'azione fu condannata dall'UNESCO e da molte nazioni di tutto il mondo, compreso l'Iran.
L'azione - in
palese contraddizione con un precedente restauro dei due capolavori, attuato
dal governo talebano - fu giustificata con l'intenzione di distruggere idoli,
nonostante la plurisecolare e stratificata tradizione islamica di non eliminare
tracce di passate culture religiose, specialmente se valide sotto un generale
profilo culturale.
La distruzione
delle statue del Buddha
a Bamiyan sembra quindi ricollegabile alle forti polemiche col mondo
occidentale (particolarmente attento ai valori dell'arte, sacra o profana) e
alle tensioni derivanti dalla politica dell'ONU collegata alla produzione dell'oppio in Afghanistan.
Chi sono veramente i Talebani?
Nel 1979 con
l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’URSS, gli Stati Uniti e il Pakistan
hanno finanziato scuole coraniche per formare una valida opposizione al regime
comunista: da quest’esperienza si sono formati i Talebani (che in lingua pashtu
significa "studenti").
Nel 1994 i
Talebani sono riusciti ad occupare e conquistare le regioni meridionali
dell’Afghanistan.
Hanno preso
Kabul nel 1996 ed hanno costretto le autorità, il presidente Rabbani e le forze
di Messud ad andare via. Così sono riusciti a salire al governo.
Oggi governano
il paese attraverso il loro leader Mullah Mohamed Omar e controllano il 90% del
territorio afghano. La Sharia,
ossia le leggi del Corano, è la fonte ispiratrice per il governo e per
l’amministrazione della giustizia di questo paese. I Talebani si fanno chiamare
studenti, ma in realtà sono analfabeti: a scuola imparano a memoria i testi
sacri senza conoscerne il significato; Osama bin Laden parla solo il pashtu, ma
trova molte difficoltà a scriverlo; amministra i soldi dello stato, che per lo
più derivano dalla vendita di pasta di oppio, e li conserva in una cassetta
sotto il suo letto.
L’Afghanistan è
tornato indietro con il tempo, è tornato al VII – VIII secolo d. C.; i suoi
abitanti non sono più liberi, sono state abolite le feste, anche quelle di
matrimonio, la televisione e le radio (esiste solo una radio che per il 90%
trasmette versetti del Corano); le donne non possono portare le scarpe con i
tacchi, perché distolgono e provocano gli uomini, e non possono andare a
scuola; i bambini non possono far volare gli aquiloni; sono state introdotte
pene quali l’amputazione degli arti.
La grande lezione di Malala
Gli
Obiettivi di Sviluppo del Millennio sono 8 punti che i 191 paesi membri delle
Nazioni Unite si sono impegnati a realizzare entro il 2015, questi obbiettivi
sono:
Sradicare
la povertà estrema e la fame
Rendere
universale l'istruzione primaria
Promuovere
la parità dei sessi e l'autonomia delle donne
Ridurre la
mortalità infantile
Migliorare
la salute materna
Combattere
l'HIV/AIDS, la malaria ed altre malattie
Garantire
la sostenibilità ambientale
Sviluppare
un partenariato mondiale per lo sviluppo
Come ho
riportato spesso nei miei articoli, il SIPRI (Istituto di Ricerche per la Pace di Stoccolma) in uno
studio relativo all'anno 2008 stimò che con il solo 10% dei soldi destinati
alle spese militari si potevano, per quell'anno, realizzare tutti gli 8
Obbiettivi del Millennio. Molte persone percepiscono i grandi problemi del
nostro pianeta come fattori importanti ma lontani dalle loro vite, altri
subiscono un forte senso d'impotenza come se, nonostante ogni nostra buona
azione, non si potesse far niente di concreto per intaccarli poiché tutto è in
mano a volontà superiori. Eppure sono molte le iniziative da sostenere a favore
della riduzione delle spese militari o per un totale disarmo. In Sardegna c'è
un movimento che si batte per far conoscere quello che succede al Poligono
Sperimentale e di Addestramento Interforze. Il gruppo face book Via le armi da
Capo Teulada e Quirra chiede la sospensione della presenza militare e denuncia
gli allarmanti dati riguardo all'inquinamento ambientale, le malattie e le
morti di tumore. Molte sono le organizzazioni in Italia che si occupano di
povertà, sostenibilità ambientale, malattie e parità di genere. Parlare di
diritti umani è doveroso, non ha niente di astratto, è la vita, quella nostra
che non è separata da quella degli altri e dall'ambiente. Vivere con obbiettivi
che riguardano il miglioramento di tutti è di per sé un'azione che aumenta la
qualità della nostra stessa vita. Bartolomeo Vanzetti affermava: "lo
voglio un tetto per ogni famiglia, del pane per ogni bocca, educazione per ogni
cuore, luce per ogni ignoranza". Circa un secolo dopo, ai nostri giorni,
in Pakistan una ragazzina di 14 anni, Malala Yousafzai, dal suo blog chiede che
sia garantita l'istruzione per i bambini del suo paese, le sue parole sono:
"Dateci penne oppure i terroristi metteranno in mano alla nostra
generazione le anni". Malala è un’attivista per i diritti umani e si batte
in particolare per il diritto allo studio delle bambine, lei stessa è poco più
che una bambina. Malala è convinta che l'istruzione sia un diritto primario
fondamentale per la pace del suo paese. Questa ragazzina, proprio per le sue
affermazioni, è ritenuta pericolosissima dal regime talebano pakistano. Il 9
ottobre scorso è stata colpita alla testa da un cecchino ed è tuttora in
ospedale attaccata ad un respiratore. Ihsanullah Ihsan, portavoce dei talebani
pakistani, ha rivendicato l'attentato dicendo che la ragazza "è il simbolo
degli infedeli e delle oscenità'' e ha aggiunto che se Malala sopravvivesse
sarà in futuro oggetto di altri attentati. Un popolo istruito dove le normali
condizioni di vita sono garantite non ha certo ragione di vivere in guerra e
questo lo sanno bene i talebani come qualsiasi regime o nazione che ha come
scopo l'arricchimento personale tramite la vendita di anni e lo sfruttamento
delle materie prime. Siamo noi che votiamo, nella seppur contorta legge
elettorale del nostro paese, i nostri rappresentanti. Abbiamo il diritto di
sapere quali opinione i politici abbiano verso le spese militari, abbiamo ben
diritto di protestare, come ieri hanno fatto i ragazzi, contro i tagli
all'istruzione e contro le assurde spese del governo come quelle riguardo
l'acquisto di F35.
Malala
lotta in questo momento per la sua vita, questa ragazzina ha NATURALMENTE messo
a disposizione la sua esistenza per una grande causa. Pensando a questi momenti
mi viene in mente la canzone dei Nomadi "Ricordati di Chico" che
diceva "Non si uccide la vita, la memoria resta".
Malala ci
sta dando una grande lezione, una piccola giovanissima donna che si è alzata da
sola nella lotta contro chi ha anni e semina il terrore in quelle regioni e nel
resto del pianeta. Non possiamo, se vogliamo coltivare la nostra umanità,
essere indifferenti a questa ragazza come suggerisce Barbara Collevecchio da II
Fatto Quotidiano raccontate la sua storia ai vostri figli. Parliamo di lei,
facciamo circolare il più possibile la sua volontà perché, per quanto i
talebani siano forti e armati, la memoria è assolutamente più potente dei loro
mitra.
Sabrina
Ancarola 13 ottobre 2012
venerdì 19 ottobre 2012
Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira.
In
questo sonetto viene messa in evidenza la contrapposizione tra la superiorità
della donna che, avanzando, fa tremare persino l’aria intorno a sé, e la
difficoltà, l’impotenza dell’uomo che vorrebbe descriverla, ma non ne è capace di
fronte a tanta bellezza e nobiltà.
Tale
incapacità viene evidenziata a livello stilistico: la prima quartina si
presenta in forma interrogativa ed
esprime lo stupore per la donna che conduce con sé Amore. Nei versi successivi
prevalgono espressioni di negazione per sottolineare ciò che l’uomo non è in
grado di fare di fronte alla donna. L’autore considera l’amore come la massima
opportunità che l’uomo ha di nobilitarsi, ma lo vede anche come un’esperienza
tragica perché,in quanto passione, la ragione è incapace di dominarlo. Di
grande rilevanza quindi il ruolo delle negazioni. I due ultimi periodi del
sonetto (corrispondenti alle due terzine) iniziano con l’avverbio “non”; in due
casi la negazione si riferisce al verbo “contare”: ne risulta una forte insistenza
sull’impossibilità, per la parola poetica, di descrivere adeguatamente
l’apparizione della donna. Con questa enunciazione di una poetica
dell’ineffabile, Cavalcanti si colloca agli antipodi di Guinizzelli
L’argomento
centrale, già guinizzelliano, è la sublimazione
e la lode della donna; la donna è una creatura superiore in grado di essere al
di sopra delle menti umane e di modificare nel poeta la visione delle altre
donne. Sono molti, sia sul piano tematico che su quello formale i riferimenti a
“Io voglio del ver la mia donna
laudare”. Sono presenti delle differenze, infatti, se è vero che la
donna appare come una figura superiore, più che apparire come un vero e
proprio angelo, la donna è qui presentata come una manifestazione sensibile
dell’“umiltà” e della “beltate”: manifestazione dunque di due “virtù”, di
altissimi ideali. L’apparizione della donna ha, a ben vedere, conseguenze
paradossali. Da un lato essa è la manifestazione sensibile di un mondo ideale e
perfetto, che può essere conosciuto solo intellettualmente. Dall’altro però
proprio la sua apparizione impedisce all’uomo di trascendere la percezione
sensibile, di elevarsi alla conoscenza intellettuale della “umiltà” e della
“beltate”. È questa appunto l’eterna sconfitta dell’uomo innamorato: egli
deve confessarsi incapace di conoscere queste “virtù” proprio nel momento in
cui, in qualche modo, le “vede”.Appare chiaro che l’uomo sia destinato a
questa sconfitta. In primo luogo, ce lo dimostra l’insistenza
sull’impossibilità di rappresentare adeguatamente con la parola l’apparizione
della donna: dapprima (vv. 3-4) essa toglie la parola agli uomini che la
vedono; poi (v. 6) il poeta proclama la sua personale impossibilità di
descrivere (“contare”) la sensazione prodotta dal suo sguardo; infine (v. 9)
l’impossibilità di “contare” non è più solo dell’io lirico, ma diviene
universale (“Non si poria contar”).
E’
un sonetto con rime incrociate, secondo lo schema ABBA, ABBA, CDE, EDC.
Sul piano lessicale, è da notare il frequente ricorso a sostantivi astratti (il latinismo “chiaritate”, “umiltà”, “ira”, il provenzalismo “piagenza”, e poi “virtute”, “beltate”, “salute”, “canoscenza”).
È presente un enjambement (vv. 3-4)
Sul piano lessicale, è da notare il frequente ricorso a sostantivi astratti (il latinismo “chiaritate”, “umiltà”, “ira”, il provenzalismo “piagenza”, e poi “virtute”, “beltate”, “salute”, “canoscenza”).
È presente un enjambement (vv. 3-4)
Livello
retorico: personificazione dell'amore, paragone della donna con tutte le altre.
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lunedì 15 ottobre 2012
POESIA "Io voglio del ver la mia donna laudare"
Analisi del sonetto:
"IO VOGLIO
DEL VER LA MIA DONNA LAUDARE ".
E' un sonetto, due quartine e due terzine, e i versi rimano secondo lo
schema ABAB, ABAB, CDE, CDE
In questo sonetto l'incontro con la donna e
il saluto di lei forniscono l'occasione per lodare l'amata. E la
lode della donna avrà, nel Dolce Stil Novo e in Dante, importanza capitale. Tipicamente stilnovistica l'associazione
di lodi fisiche (nelle quartine) e di lodi spirituali e interiori (nelle
terzine).
La donna si colloca insomma in un punto decisivo di
equilibrio e di mediazione tra il mondo naturale, concepito nelle sue
manifestazione più splendide, e il mondo interiore, psichico e morale
insieme, la donna è superiore alla natura in bellezza e in perfezione.
La donna: rende umili, converte alla fede e non lascia pensare al peccato.
Il senso più utilizzato nel sonetto è la vista.
La tipica allegoria del Dolce Stil Novo mostra qui bene i
propri ingredienti culturali: la tradizione della lirica d'amore cortese
e quella siciliana. Tipicamente provenzale il riferimento alla stella diana.
Il sonetto è incentrato su
tre temi: la lode, la salute e la gentilezza, che sono parte integrante
dell'animo della donna. Questa è descritta come la summa di tutte le
bellezze del creato, come colei che porta salute, la sua bellezza è
virtù di redenzione, uno strumento di salvezza per l'uomo.
SALUS = salvezza, il saluto della donna dona salvezza.
L'amore viene personificato per rafforzarne l'immagine ed è inteso come virtù e perfezione morale.
Al verso uno, compare “donna”, che viene
però considerata nella lingua latina domina, per cui “donna” come “mia
padrona” e quindi compare un tema fondamentale del Dolce Stil Novo:
quello della gerarchia amorosa, ossia una sottomissione dell'uomo
all'amata.
Un altro latinismo si può trovare sempre al verso uno con
“laudare” dal verbo laudo.
Se ci si sposta ai versi 9 e 12 si può
sottolineare una differenza tra “gentile” e “vile”, parole chiave dello
Stil Novo, per cui un uomo vile non potrà mai essere gentile (e quindi
amato) e viceversa.
Infine ci si può soffermare al verso 13, “vertute”
che deriva da virtus, virtutis che significa forza; rappresenta la forza
spirituale della donna che sovrasta qualsiasi cattivo pensiero.
Nella poesia sono presenti molte similitudini.
A differenza del medioevo la donna non è più causa del peccato ma è un angelo, la donna viene idealizzata.
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giovedì 4 ottobre 2012
dal latino al volgare
La
lingua italiana deriva dal latino volgare. Devi sapere, infatti, che la
lingua latina presentava anticamente due forme: una forma letteraria o scritta
(latino letterario), usata dai dotti e dalle persone di condizione più
elevata; e una forma volgare o parlata (latino regionale o volgare),
usata dal volgo, ossia dal popolo e dalle persone meno colte. Ai tempi del
suo massimo splendore Roma aveva unificato il suo immenso impero sia da un
punto di vista politico-giuridico che linguistico: in una parola aveva imposto
ai popoli conquistati le sue leggi e la sua lingua. Ma la lingua che i coloni e
i soldati romani trasferivano nelle nuove terre non era di certo il latino
letterario, bensì quello volgare, cosicché su tutto il territorio dell'impero,
se da un lato era noto il latino letterario, usato per le più alte necessità
della vita politica e culturale, dall'altro fioriva il latino volgare che
logicamente, a contatto con le lingue originali dei popoli conquistati, andò
subendo inevitabili trasformazioni o alterazioni.
La
lingua attuale deriva dall'evoluzione del latino parlato attraverso i tempi,
arricchito di termini introdotti anche da popoli invasori (Goti, Longobardi, Franchi, Arabi). Sono nate così le
lingue neolatine ( nuove dal latino)
o romanze (romanice loqui parlare romano). L'italiano è una delle lingue
neolatine o romanze così come il francese, lo spagnolo, il portoghese, il
rumeno. Quando l'Impero romano cadde (476 d.C.), anche la lingua latina si
suddivise in tante lingue diverse: in Italia cominciò a formarsi una nuova
parlata, detta volgare perché utilizzata dal popolo (vulgus), diversa
in ogni regione, mentre il latino rimase la lingua ufficiale delle persone
colte e dell'espressione letteraria e giuridica almeno fino al XIII secolo. I primi documenti di queste nuove lingue risalgono
all'IX e X secolo.
In
Italia, fin dal IX secolo, abbiamo
esempi di documenti scritti in una lingua che non è più latina, ma che ancora
in qualche modo ricorda le forme del latino.
Il
più antico documento in tal senso è il seguente indovinello conservato
nella Biblioteca Capitolare di Verona, che risale a un periodo collocabile tra
l’VIII e il IX secolo.
Se
pareba boves, Spingeva innanzi i buoi (= le dita) alba pratalia araba, arava bianchi prati (= la carta) albo
versorio teneba, teneva un bianco aratro (= la penna) negro semen
seminaba seminava nero seme. (= l'inchiostro)
Questo
«Indovinello Veronese» allusivo all'atto dello scrivere è una chiara
testimonianza di come la lingua latina stia per trasformarsi in lingua
volgare. Ad esempio, i verbi latini parebat,
arabat, tenebat, seminabat nella lingua volgare si sono trasformati in pareba,
araba, teneba, seminaba. Nel testo sono presenti termini latini e altri
volgari. I termini latini sono concentrati nelle ultime due righe. I termini
volgari sono: pareba, araba, teneba, seminaba,
in cui si è avuta la caduta della t finale; negro derivato
dal latino nigrum(nero), in cui si è avuta la caduta della desinenza -um;
albo derivato dal latino album (bianco) in cui si è
avuto un cambiamento di vocale.
Il
primo documento però in cui appare chiaramente la contrapposizione del
volgare al latino e quindi la differenza delle due lingue è il Placito
di Capua o Placito Cassinense
del 960. Si tratta di una sentenza giudiziaria relativa a una contesa sorta
per il possesso di alcune terre fra il monastero di Montecassino e un certo
Rodelgrimo di Aquino. Il giudice Archisi nel suo verbale, redatto come d'uso in
latino, riporta la formula pronunciata dai testimoni per confermare il
possesso trentennale di una delle due parti. Tale formula, trascritta nella
lingua parlata dai testimoni, ossia nella lingua volgare, è la seguente:
Sao
ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte
sancti Benedicti.
(So
che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, le possedette per
trent'anni la parte, ossia il monastero, di San Benedetto.)
Dall'esame
della frase è facile constatare che la lingua usata, seppur mantenga qualche
traccia di latino (infatti sao deriva da scio (so); fini da fines, possette da possedit;
sancti Benedicti, poi, è un genitivo latino; ko è volgare poiché in latino
la congiunzione che non esiste; kelle
è volgare, significa quelle -in latino si diceva illae- ), è
nettamente “volgare”. Siamo dunque in presenza del primo documento in
volgare italiano. I primi scritti in volgare nascono quindi da esigenze
pratiche (testi giuridici) o sono trascrizioni di testi popolari (scongiuri,
indovinelli, ecc.). tuttavia fino al XIII secolo il volgare rimane
sostanzialmente una lingua orale.
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mercoledì 3 ottobre 2012
DOPO IL MEDIOEVO L’EROE SI TRASFORMA
L’eroe dell’epica medioevale è il cavaliere “senza macchia e senza paura”,
che combatte in difesa della fede cristiana, della patria, della giustizia. I
poemi medioevali rispecchiano senz’altro la realtà sociale e culturale che li
ha creati, centrata sulla figura del cavaliere considerato un campione della
fede e un difensore delle cristianità contro gli infedeli.
Dopo il periodo medievale, l’ideale cavalleresco
sopravvisse, ma fu lentamente svuotato del suo valore fino a ridursi, nelle
corti rinascimentali, a pura esteriorità. Nel 1400-1500 con l’affermazione
della civiltà umanistica e rinascimentale, la figura del cavaliere si
trasforma. Egli ora, nei poemi epici, non viene più rappresentato come l’eroe
per eccellenza, il depositario di tutte le virtù, bensì come un uomo,
con le debolezze, le passioni tipiche
degli altri uomini. D’altra parte tale trasformazione riflette la nuova realtà
e mentalità del Rinascimento, attenta a valorizzare l’uomo e i suoi sentimenti.
In questo periodo inoltre la materia cavalleresca intende soddisfare le
esigenze di una società aristocratica di gusti ricercati, più facile a
entusiasmarsi per le narrazioni di amore e avventura, che per le vicende di
guerra e di dedizione al dovere. Nelle
corti rinascimentali si continuavano ad ascoltare storie che avevano per
protagonisti i cavalieri; non più però per esaltarne gli alti ideali, ma per
divertire i nobili con il racconto delle loro strabilianti avventure. Ormai in
quell’epoca, in cui cominciavano a diffondersi le armi da fuoco, la figura del
cavaliere apparve definitivamente tramontata e con essa gli ideali a cui si
ispirava. Gli scrittori del XV e del XVI
secolo capirono tale declino e lo descrissero nelle loro opere – che
riprendevano i racconti epico-cavallereschi medioevali – ora con ironia, come
Ludovico Ariosto nel suo Orlando Furioso;
ora con nostalgia, come Torquato Tasso nella Gerusalemme Liberata; ora con ironia e nostalgia insieme, come lo
spagnolo Miguel de Cervantes nel suo Don
Chisciotte.
Ecco allora che
Orlando, paladino di Francia, protagonista dell’Orlando Furioso di Ludovico
Ariosto, non è più rappresentato come un valoroso difensore della fede, ma
come un cavaliere che lascia il campo cristiano di Carlo Magno e la difesa di
Parigi, travolto dalla passione amorosa per la bellissima Angelica, figlia del
re del Catai.
Nella Gerusalemme
Liberata di Torquato Tasso,
invece, il cavaliere torna ad essere l’eroe animato da forti ideali religiosi,
anche se tormentato de passioni terrene. Infine nel 1600 il Don Chisciotte dell’autore spagnolo Miguel de Cervantes segna la definitiva
scomparsa del cavaliere medioevale. Don Chisciotte non è altro che una patetica
figura di cavaliere che vive “da folle” avventure appartenenti a un mondo ormai
passato.
Anche nei tre romanzi di Italo Calvino, del 1959, che
compongono il ciclo dei “Nostri antenati”: “Il visconte dimezzato”, “Il barone
rampante”, “Il cavaliere inesistente”; la figura del cavaliere medioevale è
svuotata e quasi ridicolizzata. Il visconte dimezzato racconta di un valoroso
cavaliere di Carlo Magno, Agilulfo, sempre pronto a combattere "per
la santa causa", cioè per cristianizzare tutto il mondo attraverso le
Crociate. Indossa una lucida armatura bianca, è incline alla perfezione e alla
nobiltà d'animo, sempre pronto a risanare i torti, pieno di spirito e
razionalità che però ha un unico difetto: non esiste! Ha una voce metallica e
meccanica, è molto freddo, pignolo e perciò spesso abbastanza impaziente; è
molto sincero, dice sempre la verità poiché è incapace di dire il falso.
Inizialmente è molto razionale e calcolatore, pian piano riesce però a “umanizzarsi”,
scoprendo di avere anch'egli dei sentimenti. Con questo libro Calvino ha voluto
farci riflettere sulla condizione dell’uomo e su alcuni aspetti della realtà
del nostro tempo: l’uomo d’oggi, infatti, privo d’identità, quasi
inesistente, si può identificare nella figura del cavaliere inesistente. L’uomo
appare di fatto incerto, insicuro, perplesso, privo di sicurezza, è vuoto
dentro com’è vuota la bianca armatura d’Agilulfo. Altri temi che si possono
trarre dal libro sono quello della ricerca di sé, quello della
formazione dell’essere, quello del trovare il senso della vita nella
realizzazione di un ideale e quello della guerra. Ma il tema fondamentale è
certamente quello che non può esistere solo un’anima senza corpo, come Agilulfo
o un corpo senz’anima, come Gurdulù. Solo attraverso l’unione di questi due
importantissimi elementi si può parlare di vita. La figura di Rambaldo è il
punto d’unione di questi due personaggi: egli, infatti, agisce secondo il corpo
e si lascia guidare dalla sua anima. Morale di tutta la storia, “ ad essere
s’impara”. Calvino ci narra le vicende di questo paladino, delle sue
avventure tra Francia, Scozia e Marocco e, dei suoi compagni di viaggio:
la bella Bradamante (che si scoprirà poi essere la narratrice del romanzo),
innamorata del cavaliere inesistente; l’infuocato Rambaldo desideroso di
vendicare il padre morto in battaglia; il giovane Torrismondo, alle prese con
la ricerca dei Cavalieri del Sacro Graal e, lo scudiero di Agilulfo, Gurdulù.
Nella caratterizzazione di questo personaggio viene palesata la genialità di
Calvino: questi è infatti all’opposto del cavaliere inesistente. Gurdulù è un
pazzo con il quale è praticamente impossibile avere qualsiasi tipo di
comunicazione; lui, al contrario di Agilulfo, esiste, ma non sa di esserci. Il
tutto viene descritto alla maniera di Calvino, in un Medioevo fiabesco, pregno
di ironia e di grandi temi affrontati con la leggerezza di chi è capace di
raccontare davvero.
Questo
racconto vuole in realtà rappresentare una realtà sociale, cioè la conquista
dell’essere, oggi divenuta molto difficile visto tutti i modelli che ci vengono
proposti. Agilulfo che in verità era “vuoto” rappresenta la società di oggi, in
cui l’uomo è sempre più “vuoto”, più superficiale e attaccato alle cose frivole
come se fosse privo di qualcosa: ma non di qualcosa di piccolo ed
insignificante ma probabilmente quello che si va sempre più dimenticando sono i
valori fondamentali e basilari come lo può essere importante e basilare un
corpo per un cavaliere. L’autore quindi, ci parla dell’uomo moderno, della sua
solitudine e della totale impossibilità di autenticità. Temi come quello delle
maschere, dell’inconsistenza, delle nevrosi corrono per le pagine di questo
romanzo insieme a saraceni e paladini, a conventi e a giochi di parole;
parole mai difficili ma usate con la maestria di chi sa bene come farci
venire voglia di girare pagina fino alla fine. Citando lo scrittore
stesso: “la pagina ha il suo bene
solo quando la volti e c’è la vita dietro che spinge a scompigliare tutti i
fogli del libro. La penna corre spinta dallo stesso piacere che ti fa correre
le strade
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domenica 30 settembre 2012
La Canzone dei Nibelunghi
Sull'esempio delle chanson de
geste francesi, in area
germanica viene composta la Canzone dei
Nibelunghi, un poema in versi redatto nel Xlll secolo
in volgare tedesco da un autore anonimo che riprende e organizza antichi miti
e leggende: nell'area nord europea queste narrazioni leggendarie di carattere
epico basate su tradizioni popolari vengono dette saghe.
L'opera è suddivisa in 39 canti
costituiti da quartine (strofe di quattro versi] in rima baciata
(AA BB] ed è ambientata nel v secolo d.C. nel territorio che costeggia il
corso del fiume Reno. Essa è strutturata in due ampi nuclei narrativi, il primo
dei quali ha come protagonista l'eroe Sigfrido e si conclude con la sua uccisione, mentre il
secondo ruota intorno alla moglie Crimilde e al suo progetto di vendicare la morte dell'amato.
La Canzone dei
Nibelunghi ha una grande diffusione
popolare, e grazie al ritrovamento di antichi manoscritti la sua fama cresce a
partire dal XVlll secolo raggiungendo il suo apice nel Novecento,
quando il compositore Richard Wagner si ispira a essa per il suo ciclo di
quattro drammi musicali intitolato L'anello del Nibelungo.
Protagonisti della Canzone
dei Nibelunghi.
A
differenza dei personaggi delle chanson de geste francesi,
i protagonisti della Canzone dei Nibelunghi appaiono
psicologicamente complessi e sono caratterizzati da passioni violente e
intense che spingono le loro azioni alle estreme conseguenze.
Brunilde è una delle valchirie di Odino, le fanciulle guerriere
che affiancano il re degli dèi. Regna in Islanda, è dotata di poteri magici,
è un'esperta guerriera e sottopone i suoi pretendenti a prove durissime. Quando
scopre l'inganno di Sigfrido si vendica in modo terribile.
Crimilde è la
sorella del re dei Burgundi Gunther. Sposa Sigfrido nonostante una profezia le
abbia predetto la fine prematura dell'uomo e alla sua morte accetta le nozze
con il re degli Unni Etzel (Attila). Inizialmente timida e gentile, dopo l'uccisione di Sigfrido è
animata da un violento spirito di vendetta.
Gunther è re dei Burgundi e fratello di Crimilde. Ottiene
la mano di Brunilde grazie all'aiuto di Sigfrido a cui dà in sposa la sorella,
ma tradisce l'antico compagno per sottrargli il tesoro dei Nibelunghi. È un
uomo debole, insicuro e molto avido.
Hagen vassallo di Gunther, si
fa rivelare da Crimilde il punto debole
di Sigfrido e lo uccide a tradimento, poi seppellisce il
tesoro dei Nibelunghi nel Reno per evitare che la donna lo usi per realizzare
la sua vendetta.
Sigfrido è un
discendente del capo degli dèi Odino. Quando si immerge nel sangue del drago
Fafnir diventa invulnerabile in tutto il corpo tranne che in un punto della
schiena su cui si è posata una foglia. Aiuta Gunther a conquistare Brunilde,
sposa Crimilde e viene ucciso da Hagen. È giovane e bello e simboleggia il
coraggio, la lealtà, la generosità e l'altruismo.
La trama
Sigfrido, figlio del re della regione del basso Reno, parte per
impossessarsi dell'immenso tesoro dei Nibelunghi, una stirpe di nani che vive
sotto terra e conosce i segreti della fusione del ferro: nel corso della sua
impresa Sigfrido sottrae al nano Alberico un cappuccio magico che lo rende
invisibile e gli dà la forza di dodici guerrieri, uccide il drago Fafnir e si
bagna nel suo sangue diventando quasi
completamente invulnerabile, trannein un punto tra le scapole dove si è posata una foglia.. Conquistato il tesoro dei Nibelunghi, Sigfrido
giunge alla corte dei Burgundi (stanziati lungo il corso del fiume Reno), dove
cerca di ottenere la mano di Crimilde, la sorella del re Gunther nota per la
sua bellezza. Per raggiungere il suo scopo promette a Gunther di aiutarlo a
conquistare la crudele regina d'Islanda Brunilde, che sottopone i suoi
pretendenti a terribili prove di forza e di coraggio.
Durante
il torneo Sigfrido si rende invisibile e sconfigge Brunilde, costringendola a
sposare Gunther che crede il vero vincitore della sfida. Grazie alla sua impresa
anche Sigfrido può sposare Crimilde e tornare con lei nella sua terra.
Trascorsi dieci anni, le due coppie si ritrovano, ma nel corso di una violenta
lite Crimilde rivela a Brunilde l'inganno che si cela dietro le sue nozze,
suscitando in lei un furioso spirito di vendetta. L'odio nei confronti di
Sigfrido dilaga e coinvolge anche Gunther, che vuole eliminare l'antico
alleato per impadronirsi del suo tesoro; quando il vassallo Hagen scopre il suo
punto debole Sigfrido viene ucciso e i due rubano il tesoro dei Nibelunghi, nascondendolo nel letto del
fiume Reno. Rimasta vedova, Crimilde accetta di sposare il re degli unni Etzel
(Attila) ma non riesce a vendicare la morte del primo marito; dodici anni dopo,
in occasione della nascita del primogenito, invita i Burgundi alla sua corte e
durante i festeggiamenti li fa sterminare tutti.
Solo Hagen e Gunther vengono risparmiati e
sono condotti da Crimilde che, dopo aver fatto decapitare il fratello, chiede
ad Hagen di svelarle il luogo dove è nascosto il tesoro.
Al suo rifiuto, Crimilde decapita Hagen con
la spada di Sigfrido, ma viene uccisa a sua volta da Ildebrando, un maestro
d'armi degli Unni indignato dalla crudeltà della donna: la conclusione del
poema realizza un'antica profezia secondo cui l'oro dei Nibelunghi è maledetto
e procura morte e rovina a chi cerca di possederlo.
La storia
Nel poema gli elementi
mitici e leggendari risalenti alla tradizione germanica e scandinava si
intrecciano a un nucleo storico che viene rielaborato in modo fantasioso.
Nella prima metà del v
secolo il popolo dei Burgundi conquista la riva sinistra del Reno in
precedenza controllata dai Romani e vi si insedia stabilmente. Qualche
decennio dopo i Burgundi vengono attaccati e sconfitti
dagli Unni, una popolazione nomade e guerriera proveniente dall'Asia e guidata
da Attila. I superstiti sono costretti a spostarsi verso ovest, nel territorio
dell'attuale Francia che da loro prende il nome di Borgogna. Lo sterminio dei
Burgundi durante i festeggiamenti alla corte degli Unni
rappresenterebbe quindi in modo simbolico la fine dell'egemonia burgunda e l'affermarsi nel loro territorio di un
nuovo popolo di dominatori.
Nella Canzone
dei Nibelunghi ritroviamo diversi temi tipici
dei poemi cavallereschi, quali l'esaltazione del coraggio e della forza fisica
e l'intervento di forze magiche e soprannaturali nelle vicende umane
Ma l’opera è un’epopea pagana
che rappresenta un mondo feroce, crudele, spietato in cui i sentimenti
dominanti sono: l’odio, l’invidia, il desiderio di potere e la sete di
vendetta. E’ questo un valore culturale specifico delle antiche popolazioni
germaniche, lo spirito di vendetta spinge Brunilde a far uccidere Sigfrido e
Crimilde a provocare lo sterminio del suo stesso popolo.
La legge germanica
prevede infatti che chi ritiene di essere stato danneggiato da qualcuno possa
vendicarsi con un'azione personale, per costringere chi gli ha procurato il
danno a espiare la propria colpa. Questo meccanismo si chiama faida e può coinvolgere due individui, ma anche
due clan (famiglie allargate) o addirittura due territori: per questo motivo
le azioni compiute da Brunilde e Crimilde, che a noi paiono crudeli ed eccessivamente
violente, sono invece perfettamente coerenti con i valori e la cultura della società in cui
esse vivono.
L’unico
personaggio che non si macchia di delitti e viltà è Sigfrido che rappresenta il
nobile e perfetto cavaliere, valoroso, generoso e leale, dotato di tutte le
virtù tipiche del mondo cortese e cavalleresco del XIII secolo
Il Cantare del mio Cid: il più importante poema epico spagnolo.
Il
poema del mio Cid è il più importante
poema epico spagnolo e, come la Chanson de Roland, celebra
la difesa della cristianità occidentale contro gli arabi invasori.
Ne
è protagonista Rodrigo Diaz de Vivar, che è realmente vissuto e che è
considerato un eroe nazionale per aver compiuto straordinarie imprese contro
glia Arabi che occupavano la Spagna. Rodrigo Diaz conte di Bivar, meglio conosciuto con
il nome di Cid Campeador, nacque, intorno al 1040 d.C., a Bivar, un
paesino vicino a Burgos nel regno di Castiglia. Proveniva da una famiglia della
piccola nobiltà castigliana. Crebbe alla corte del Re di Castiglia ed
ebbe una buona educazione, come si addiceva ai figli della nobiltà. La leggenda
vuole che al momento del suo battesimo un monaco gli regalasse il cavallo che
poi lo accompagnò in tutte le sue avventure: il famoso Babieca.
Il nome El Cid Campeador gli venne attribuito più
avanti. È composto da due parti: El Cid, nomignolo datogli dagli arabi e che
significa "Il signore" in una lingua mista di spagnolo e arabo,
Campeador, “il campione", invece, gli venne dato dagli spagnoli dopo le
sue vittorie. Questo soprannome, quindi,
dimostra che il personaggio godeva del rispetto e dell'ammirazione sia tra gli
spagnoli che tra gli arabi.
Come la Chanson de Roland
è il poema della cristianità e delle gesta dei paladini in difesa
della patria, questo è il poema della fedeltà assoluta al proprio re, che viene
mantenuta nonostante le amarezze e le delusioni.
Il protagonista, Rodrigo Diaz de Bivar detto il Cid Campeador (signore
del campo di battaglia), è un vassallo di re Alfonso VI di Castiglia che, all'età
di quarant'anni circa, viene accusato ingiustamente di essersi appropriato di
somme spettanti al re e viene esiliato dopo la confisca dei suoi beni. Il Cid
incarna l'ideale del perfetto vassallo fedele e onesto anche se umiliato.
Messo al bando, compie imprese in nome del re, conquista castelli e territori e
attira sempre nuovi seguaci. Si impadronisce della città di Valenza, creando un
nuovo feudo cristiano, e a ogni nuova conquista invia doni al re chiedendone il
perdono, che infine giunge. Il re stesso esorta Rodrigo Diaz a concedere la
mano delle sue figlie a due principi eredi della grande casa feudale di
Carriòn, che in realtà mirano soltanto alle ricchezze del Cid. Questi
accontenta il re, anche se ritiene indegni i due futuri generi. Celebrato il
matrimonio, i due infanti di Carriòn nel condurre le spose nella propria terra
le brutalizzano e le abbandonano in un bosco, ritenendo disonorevole il
matrimonio con le figlie di un esule. Ma il Cid si vendica chiedendo, di fronte
all'assemblea dei grandi di Spagna, la restituzione del patrimonio consegnato
ai generi. Il re concede giustizia e le figlie sposeranno in seguito i principi
di Navarra e di Aragona e diventeranno regine.
Questa è la trama del poema. Le vicende sono storiche ma trasfigurate
dalla fantasia popolare.
Anche di questo testo non si conosce con sicurezza l'autore;
probabilmente si trattava di un cantore girovago vissuto nel XII secolo,
cinquant’anni dopo la morte del Cid.
Tizona, la spada dell'eroe spagnolo è tuttora
conservata a Madrid nel museo dell'esercito. Grande fama ha in Spagna anche il
cavallo del Cid, Babieca, a cui sono stati dedicati monumenti e leggende.
Il Cantare del mio CId: il poema
Il poema del mio Cid è un poema
epico formato da 3733 versi di un autore anonimo risalente al 1140, è
considerato il primo documento letterario spagnolo perché scritto in antica
lingua castigliana da cui deriva lo spagnolo moderno. Il
manoscritto fu ritrovato soltanto alla fine del Settecento, privo delle prime
pagine, recava la data del 1307
e il nome di Peter Abbat, un giullare o forse un copista.
Il poema narra fatti fondati sulla realtà storica,
anche se ampiamente romanzati, e si compone di tre canzoni (cantares):la
canzone dell’esilio (El cantar del destriero),la canzone delle nozze (El
cantar de las bodas) e la canzone dell’oltraggio di Corpes (El cantar de
la afrenta de corpes).
Nella prima parte Rodrigo Diaz (El Cid Campeador), vassallo del re, viene accusato da cortigiani maligni di essersi appropriato di una parte dei tributi dovuti dai mori ad Alfonso VI. Esiliato dal re,lascia la moglie Jimena e le figlie Elvira e Sol nel monastero di Gardena e vaga per la Spagna con un gruppo di amici fidati, compiendo imprese a danno dei mori fino alla riconquista di Valencia. Nella seconda parte le sue figlie vanno in spose agli infanti di Càrion, due uomini senza scrupoli, che, umiliati dal Cid durante una festa di corte, nella terza parte del poema, decidono di vendicarsi oltraggiando le loro spose e lasciandole in preda alle belve feroci. Le due donne vengono poi salvate da Felez Munoz nipote del Cid, il quale sfida i due infanti a duello e li uccide. Il poema si conclude con il Cid che riottiene le sue terre, mentre le figlie vanno in spose ad altri due infanti di più nobile carattere.
Nella prima parte Rodrigo Diaz (El Cid Campeador), vassallo del re, viene accusato da cortigiani maligni di essersi appropriato di una parte dei tributi dovuti dai mori ad Alfonso VI. Esiliato dal re,lascia la moglie Jimena e le figlie Elvira e Sol nel monastero di Gardena e vaga per la Spagna con un gruppo di amici fidati, compiendo imprese a danno dei mori fino alla riconquista di Valencia. Nella seconda parte le sue figlie vanno in spose agli infanti di Càrion, due uomini senza scrupoli, che, umiliati dal Cid durante una festa di corte, nella terza parte del poema, decidono di vendicarsi oltraggiando le loro spose e lasciandole in preda alle belve feroci. Le due donne vengono poi salvate da Felez Munoz nipote del Cid, il quale sfida i due infanti a duello e li uccide. Il poema si conclude con il Cid che riottiene le sue terre, mentre le figlie vanno in spose ad altri due infanti di più nobile carattere.
Il Cantare del mio CId: i temi
fondamentali
Il Cantare del Cid celebra innanzi tutto le gesta
eroiche dei combattenti della Reconquista.
Il poema permette, inoltre, di comprendere i valori
morali, le virtù tipiche della società feudale di quel tempo come:
-
il senso
dell’onore e della giustizia;
-
la fedeltà e
la lealtà del cavaliere verso il proprio signore e il proprio sovrano;
-
la fede in Dio
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