Visualizzazione post con etichetta epica. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta epica. Mostra tutti i post

mercoledì 2 ottobre 2013

Ludovico Ariosto e Torquato Tasso















giovedì 1 novembre 2012

geografia in prima media



COSA STUDIEREMO QUEST’ANNO?

L’EUROPA

Il nome Europa deriva:
-         da un termine assiro–fenicio EREB (tramonto) in contrapposizione ad ACU (alba) nome attribuito all’Asia;
-         dai Greci che con il termine Europa indicavano una grande terra, dalle caratteristiche vaghe ma sicuramente diverse da quelle dell’Asia e dell’Africa;
Il Mito di Europa

Questo mito è particolarmente significativo perché Europa, originaria della Fenicia, viene portata dal dio a Creta, luogo d'origine della civiltà europea.
La fanciulla rapita dal toro.
Zeus non era particolarmente soddisfatto della moglie Era e andava spesso in cerca di avventure extra-coniugali. Non poteva mostrarsi nelle proprie fattezze, perché così Era avrebbe facilmente scoperto i suoi tradimenti e, dunque, per ottenere l'amore delle fanciulle di cui si invaghiva, Zeus ricorreva anche agli stratagemmi più bizzarri. Una volta, Zeus si innamorò di Europa, unica figlia femmina di Agenore, della terra di Canaan, e incaricò Ermes di spingere il bestiame di questi fino alla riva del mare presso Tiro, dove Europa e le sue compagne usavano passeggiare. Zeus stesso si confuse nella mandria, sotto le spoglie di un toro bianco come la neve, con un petto robusto e due piccole corna, simili a gemme, tra le quali correva un'unica striscia nera. Europa fu colpita dalla sua bellezza e, poiché il toro si rivelò mansueto come un agnello, cominciò a giocare con lui ponendogli dei fiori in bocca e appendendo ghirlande alle sue corna; infine gli balzò sulla groppa e si lasciò condurre al piccolo trotto fino alla riva del mare. All'improvviso il toro si lanciò nelle onde e cominciò a nuotare, ed Europa sgomenta, volgendo il capo, fissava la riva sempre più lontana: con la mano destra stringeva il corno del toro, con la sinistra un canestro colmo di fiori. Giunto su una spiaggia di Creta, Zeus amoreggiò con Europa in un boschetto di salici presso a una fonte. Agenore mandò i suoi figli in cerca della sorella. Fenice dopo varie peregrinazioni, divenne il capostipite dei fenici. Cilice, a sua volta, si instaurò in un'area sulla costa sudorientale dell'Asia Minore a nord di Cipro e divenne il capostipite dei cilici. Cadmo, il fratello più famoso, è arrivato in Grecia dove si instaurò e fondò la città di Tebe.
Europa divenne la prima regina di Creta. Ebbe da Zeus tre figli: Minosse, Radamanto. e Sarpedonte. che vennero in seguito adottati da suo marito Asterione re di Creta. Dopo la morte di Asterione, Minosse diventa re di Creta. In onore di Minosse e di sua madre, i Greci diedero il nome "Europa" al continente che si trova a nord di Creta.




Nel planisfero muto tracciate a matita i confini dell’Europa, i punti cardinali e i mari più importanti che conoscete



Adesso individuate gli altri continenti e date loro il nome.
Per gli altri continenti è stato più facile?
Perché?
Cos'ha l'Europa di diverso?
Rivediamo la definizione di continente.

 


L’Europa non è un continente dal punto di vista fisico, perché ha dei confini convenzionali proposti nel 1958 da alcuni geografi sovietici: dal Mar Baltico, attraverso gli Urali, l’Ural, il Mar Caspio (il Caucaso resta all’Asia), tra il Mar Nero e il Mar d’Azov fino ai Dardanelli.





domenica 7 ottobre 2012

Teseo e il Minotauro




Il mito del Minotauro inizia a Tiro, città di cui era re Agenor, figlio di Poseidone e della mortale Libia.
Poseidone si sposò Libia e da questa unione nacque Europa, una fanciulla particolarmente bella e pura di cui Zeus s'innamorò perdutamente. Zeus trasformatosi in un toro rapì Europa e la condusse a Creta e lì la possedette. Da questa unione nacquero tre figli. Uno di questi era Minosse, famoso per la sua severità e giustizia, che regnò su Creta e  fu signore del mare.
Minosse chiese a Poseidone, dio del mare, di mandargli un toro. Ricevere questo toro dal dio era la prova che l'Olimpo approvava il suo regno. In effetti, Poseidone mandò il toro, un toro di un bianco stupefacente, destinato ad essere sacrificato. Ma Minosse affascinato dalla sua bellezza non lo sacrificò; la sua forza era tale che il re di Creta, pieno di ammirazione, decise di utilizzarlo come toro da monta per i suoi greggi. Quando Poseidone lo venne a sapere, al fine di punire Minosse, non solo trasformò il bel toro in un animale pericoloso ma fece anche in modo che Pasifae, moglie di Minosse, s'innamorasse del toro e si unisse a lui. Fu da questa unione che nacque il Minotauro, un mostro con il corpo di uomo e la testa di toro. Un mostro pericoloso e al tempo stesso di alta stirpe, un pericolo da scongiurare che minacciava la pace ed il benessere del regno. Così Minosse lo rinchiuse in un palazzo la cui costruzione affidò ad un architetto ateniese di nome Dedalo il quale, iniziato da Atena a tutte le invenzioni dell'arte e dell'industria, costruì un palazzo a forma di labirinto - il labirinto di Cnosso che doveva essere un inestricabile susseguirsi di camere, corridoi, sale, finti ingressi e finte porte -  un luogo dove perdersi e da cui fosse impossibile uscire. Più tardi, anche l'ateniese Dedalo vi fu rinchiuso col figlio Icaro, e poté fuggire soltanto costruendosi delle ali fatte di penne e cera inventando così l'arte del volo. Racconta la leggenda che Icaro volò tropo vicino al sole, le ali si sciolsero ed egli cadde in quel mare, che presumibilmente da lui fu chiamato Icario. Soltanto Dedalo si salvò.
Il figlio di Minosse, Androgeo, giunse ad Atene per misurarsi con i giovani ateniesi nei giochi tauromachici (la tauromachìa è uno spettacolo diffuso, specie in tempi antichi, nel mondo mediterraneo, consiste in un combattimento di bovini tra loro, di uomini contro bovini o di bovini contro altri animali), ma rimase ucciso dal toro di Maratona. Suo padre, pazzo di dolore, si strappò la corona dalla fronte accusando gli ateniesi di quell'omicidio, la morte di Androgeo doveva portare loro sfortuna e da lì in poi dovettero pagare un orribile tributo: ogni nove anni Minosse esigeva che mandassero a Creta quattordici sudditi ateniesi, sette fanciulli e sette fanciulle vergini in pubertà, che sparivano nel labirinto sacrificate al Minotauro. Quando Teseo vinse il toro di Maratona, erano già passati diciotto anni e Minosse stava per scegliere, per la terza volta, la schiera del sacrificio. Secondo la narrazione più antica, Teseo sarebbe andato a Creta con la sua nave o con quella di suo padre per evitare un'altro inutile sacrificio, ossia per uccidere il Minotauro. Era partito con le vele nere ma suo padre gliene aveva data anche una bianca che avrebbe dovuto essere issata se Teseo fosse ritornato vittorioso. In tutte le narrazioni, Teseo fu ricevuto a Cnosso da una figura di donna gentile, forse una dea come Anfitrite. Ma quando questi volle entrare spontaneamente nel labirinto, Arianna (figlia di Minosse e Pasifae), signora del labirinto, ebbe pietà di lui e, per amore del giovane ateniese, tradì il proprio fratello, il Minotauro. L'astuta ragazza suggerì a Teseo di fissare il capo del filo all'architrave dell'entrata del labirinto e di tenersi il gomitolo in mano senza perderlo mai, poiché gli sarebbe servito a trovare la via di uscita. Il Minotauro dormiva nella parte più interna del labirinto. Teseo doveva afferrarlo per le sopracciglia e sacrificarlo a Poseidone. Con una mano si afferrarono a vicenda, e infine Teseo trafisse mortalmente il Minotauro. Egli appare vittorioso alla porta dell'edificio sotterraneo senza portare con se il Minotauro ucciso, dove viene accolto festosamente dai fanciulli ateniesi scampati al sacrificio. Teseo salì sulla nave con Arianna e durante la notte presero la via del ritorno, portando con sé anche i giovani ateniesi. Teseo aveva promesso di corrispondere all'amore di Arianna sposandola una volta vinto il Minotauro. Consumarono il loro amore nella nave, ma prima dell'alba Teseo volle scendere a terra, e sbarcarono nell'isola di Dia, l'attuale Nasso. Dioniso apparve in sogno a Teseo e lo minacciò se non gli avesse ceduto Arianna. Egli si svegliò spaventato e la lasciò sull'isola immersa nel sonno. Quella stessa notte ella fu portata da Dioniso sul monte Drios, e scomparvero entrambi. Teseo proseguì con i giovani in direzione di Delo, dove ballò una danza che imitava le sinuosità del labirinto. Ma nella confusione di emozioni per la perdita di Arianna, si dimenticò di cambiare le vele nere con quella bianca. Egeo che attendeva il ritorno del figlio dall'alto delle mura, vide dall'Acropoli le vele nere che la nave portava alla partenza. Così, scorgendo quel segno di sventura, disperato, si uccise gettandosi in quel mare che da lui prese il nome.

domenica 30 settembre 2012

La Canzone dei Nibelunghi




Sull'esempio delle chanson de geste francesi, in area germanica viene composta la Canzone dei Nibelunghi, un poema in versi redatto nel Xlll secolo in volgare tedesco da un autore anonimo che riprende e orga­nizza antichi miti e leggende: nell'area nord europea queste narrazioni leggendarie di carattere epico basate su tradizioni popolari vengono det­te saghe.
L'opera è suddivisa in 39 canti costituiti da quartine (strofe di quattro versi] in rima baciata (AA BB] ed è ambientata nel v secolo d.C. nel ter­ritorio che costeggia il corso del fiume Reno. Essa è strutturata in due ampi nuclei narrativi, il primo dei quali ha come protagonista l'eroe Sig­frido e si conclude con la sua uccisione, mentre il secondo ruota intor­no alla moglie Crimilde e al suo progetto di vendicare la morte dell'amato.
La Canzone dei Nibelunghi ha una grande diffusione popolare, e grazie al ritrovamento di antichi manoscritti la sua fama cresce a partire dal XVlll secolo raggiungendo il suo apice nel Novecento, quando il compo­sitore Richard Wagner si ispira a essa per il suo ciclo di quattro dram­mi musicali intitolato L'anello del Nibelungo.
Protagonisti della Canzone dei Nibelunghi.
A differenza dei personaggi delle chanson de geste francesi, i protagonisti della Canzone dei Nibelunghi appaiono psicologicamente complessi e sono ca­ratterizzati da passioni violente e intense che spin­gono le loro azioni alle estreme conseguenze.
Brunilde è una delle valchirie di Odi­no, le fanciulle guerriere che affian­cano il re degli dèi. Regna in Islanda, è dotata di po­teri magici, è un'esperta guerriera e sottopone i suoi pretendenti a prove durissime. Quando scopre l'inganno di Sigfrido si vendica in modo terribile.
Crimilde è la sorella del re dei Burgundi Gunther. Sposa Sig­frido nonostante una profezia le abbia predetto la fine pre­matura dell'uomo e alla sua morte accetta le nozze con il re degli Unni Etzel (Attila). Inizialmente timida e gentile, dopo l'uc­cisione di Sigfrido è ani­mata da un violento spirito di vendetta.
 Gunther è re dei Burgundi e fratello di Crimilde. Ottiene la mano di Brunil­de grazie all'aiuto di Sigfrido a cui dà in sposa la sorella, ma tradisce l'an­tico compagno per sottrargli il tesoro dei Nibelunghi. È un uomo debole, insicuro e mol­to avido.
        Hagen vassallo di Gunther, si fa ri­velare da Crimilde il punto debole di Sigfrido e lo uccide a tradimento, poi seppellisce il tesoro dei Nibe­lunghi nel Reno per evitare che la donna lo usi per realizzare la sua ven­detta.
Sigfrido è un discendente del capo degli dèi Odino. Quando si immerge nel sangue del drago Fafnir diventa invulnerabile in tutto il corpo tranne che in un punto della schiena su cui si è po­sata una foglia. Aiuta Gunther a con­quistare Brunilde, sposa Crimilde e viene ucciso da Hagen. È giovane e bello e simboleg­gia il coraggio, la lealtà, la ge­nerosità e l'altruismo.
La trama
Sigfrido, figlio del re della regione del basso Reno, parte per impossessarsi dell'immenso tesoro dei Nibelunghi, una stirpe di nani che vive sotto ter­ra e conosce i segreti della fusione del ferro: nel corso del­la sua impresa Sigfrido sottrae al nano Alberico un cap­puccio magico che lo rende invisibile e gli dà la forza di dodici guerrieri, uccide il drago Fafnir e si bagna  nel suo sangue diventando quasi completamente invulnerabile, trannein un punto tra le scapole dove si è posata una foglia.. Conquistato il tesoro dei Nibelunghi, Sigfrido giunge alla corte dei Burgundi (stanziati lun­go il corso del fiume Reno), dove cerca di ottenere la mano di Crimilde, la sorella del re Gunther nota per la sua bellezza. Per raggiungere il suo scopo promette a Gun­ther di aiutarlo a conquistare la crudele regina d'Islanda Brunilde, che sottopone i suoi pretendenti a terribili prove di for­za e di coraggio.
Durante il torneo Sigfrido si rende invisi­bile e sconfigge Brunilde, costringendo­la a sposare Gunther che crede il vero vin­citore della sfida. Grazie alla sua impre­sa anche Sigfrido può sposare Crimilde e tornare con lei nella sua terra. Trascorsi dieci anni, le due coppie si ri­trovano, ma nel corso di una violenta lite Crimilde rivela a Brunilde l'inganno che si cela dietro le sue nozze, suscitando in lei un furioso spirito di vendetta. L'odio nei confronti di Sigfrido dilaga e coin­volge anche Gunther, che vuole elimina­re l'antico alleato per impadronirsi del suo tesoro; quando il vassallo Hagen scopre il suo punto debole Sigfrido viene ucciso e i due rubano il tesoro dei  Nibelunghi, na­scondendolo nel letto del fiume Reno. Rimasta vedova, Crimilde accetta di spo­sare il re degli unni Etzel (Attila) ma non riesce a vendicare la morte del primo marito; dodici anni dopo, in occasione della nascita del primoge­nito, invita i Burgundi alla sua corte e durante i festeggiamenti li fa ster­minare tutti.
Solo Hagen e Gunther vengono risparmiati e sono condotti da Crimilde che, dopo aver fatto decapitare il fratello, chiede ad Hagen di svelarle il luogo dove è nascosto il tesoro.
Al suo rifiuto, Crimilde decapita Hagen con la spada di Sigfrido, ma vie­ne uccisa a sua volta da Ildebrando, un maestro d'armi degli Unni indi­gnato dalla crudeltà della donna: la conclusione del poema realizza un'an­tica profezia secondo cui l'oro dei Nibelunghi è maledetto e procura mor­te e rovina a chi cerca di possederlo.

La storia
Nel poema gli elementi mitici e leggendari risalenti alla tradizione ger­manica e scandinava si intrecciano a un nucleo storico che viene riela­borato in modo fantasioso.
Nella prima metà del v secolo il popolo dei Burgundi conquista la riva si­nistra del Reno in precedenza controllata dai Romani e vi si insedia sta­bilmente. Qualche decennio dopo i Burgundi vengono attaccati e scon­fitti dagli Unni, una popolazione nomade e guerriera proveniente dall'Asia e guidata da Attila. I superstiti sono costretti a spostarsi verso ovest, nel territorio dell'attuale Francia che da loro prende il nome di Borgogna. Lo sterminio dei Burgundi durante i festeggiamenti alla corte degli Unni rappresenterebbe quindi in modo simbolico la fine dell'egemonia bur­gunda e l'affermarsi nel loro territorio di un nuovo popolo di domina­tori.
Nella Canzone dei Nibelunghi ritroviamo diversi temi tipici dei poemi ca­vallereschi, quali l'esaltazione del coraggio e della forza fisica e l'inter­vento di forze magiche e soprannaturali nelle vicende umane
Ma l’opera è un’epopea pagana che rappresenta un mondo feroce, crudele, spietato in cui i sentimenti dominanti sono: l’odio, l’invidia, il desiderio di potere e la sete di vendetta. E’ questo un valore cultu­rale specifico delle antiche popolazioni germaniche, lo spirito di ven­detta spinge Brunilde a far uccidere Sigfrido e Crimilde a provoca­re lo sterminio del suo stesso popolo.
La legge germanica prevede infatti che chi ritiene di essere stato dan­neggiato da qualcuno possa vendicarsi con un'azione personale, per co­stringere chi gli ha procurato il danno a espiare la propria colpa. Que­sto meccanismo si chiama faida e può coinvolgere due individui, ma an­che due clan (famiglie allargate) o addirittura due territori: per questo motivo le azioni compiute da Brunilde e Crimilde, che a noi paiono cru­deli ed eccessivamente violente, sono invece perfettamente coerenti con i valori e la cultura della società in cui esse vivono.
L’unico personaggio che non si macchia di delitti e viltà è Sigfrido che rappresenta il nobile e perfetto cavaliere, valoroso, generoso e leale, dotato di tutte le virtù tipiche del mondo cortese e cavalleresco del XIII secolo

Il Cantare del mio Cid: il più importante poema epico spagnolo.



Il poema del mio Cid  è il più importante poema epico spagnolo e, come  la Chanson de Roland, celebra la difesa della cristianità occidentale contro gli arabi invasori.
Ne è protagonista Rodrigo Diaz de Vivar, che è realmente vissuto e che è considerato un eroe nazionale per aver compiuto straordinarie imprese contro glia Arabi che occupavano la Spagna. Rodrigo Diaz conte di Bivar, meglio conosciuto con il nome di Cid  Campeador, nacque, intorno al 1040 d.C., a Bivar, un paesino vicino a Burgos nel regno di Castiglia. Proveniva da una famiglia della piccola nobiltà castigliana. Crebbe  alla corte del Re di Castiglia ed ebbe una buona educazione, come si addiceva ai figli della nobiltà. La leggenda vuole che al momento del suo battesimo un monaco gli regalasse il cavallo che poi lo accompagnò in tutte le sue avventure: il famoso Babieca.
Il nome El Cid Campeador gli venne attribuito più avanti. È composto da due parti: El Cid, nomignolo datogli dagli arabi e che significa "Il signore" in una lingua mista di spagnolo e arabo, Campeador, “il campione", invece, gli venne dato dagli spagnoli dopo le sue  vittorie. Questo soprannome, quindi, dimostra che il personaggio godeva del rispetto e dell'ammirazione sia tra gli spagnoli che tra gli arabi.
Come la Chanson de Roland è il poema della cristianità e delle gesta dei paladini in difesa della patria, questo è il poema della fedeltà assoluta al proprio re, che viene mantenuta nonostante le amarezze e le delusioni.
Il protagonista, Rodrigo Diaz de Bivar detto il Cid Campeador (signore del campo di battaglia), è un vassallo di re Alfonso VI di Castiglia che, all'età di quarant'anni circa, viene accusato ingiu­stamente di essersi appropriato di somme spettanti al re e viene esiliato dopo la confisca dei suoi beni. Il Cid incarna l'ideale del perfetto vassallo fedele e one­sto anche se umiliato. Messo al bando, compie imprese in nome del re, conquista castelli e territori e attira sempre nuovi seguaci. Si impadronisce della città di Valenza, creando un nuovo feudo cristiano, e a ogni nuova conquista invia doni al re chiedendone il perdono, che infine giunge. Il re stesso esorta Rodrigo Diaz a concedere la mano delle sue figlie a due principi eredi della grande casa feudale di Carriòn, che in realtà mirano soltanto alle ricchezze del Cid. Questi accontenta il re, anche se ritiene indegni i due futuri generi. Celebrato il matrimonio, i due infanti di Carriòn nel con­durre le spose nella propria terra le brutalizzano e le abbandona­no in un bosco, ritenendo disonorevole il matrimonio con le figlie di un esule. Ma il Cid si vendica chiedendo, di fronte all'assemblea dei grandi di Spagna, la restituzione del patri­monio consegnato ai generi. Il re concede giustizia e le figlie sposeranno in seguito i principi di Navarra e di Aragona e diventeranno regine.
Questa è la trama del poema. Le vicende sono storiche ma trasfigurate dalla fantasia popolare.
Anche di questo testo non si conosce con sicurezza l'autore; probabilmente si trattava di un cantore girovago vissuto nel XII secolo, cinquant’anni dopo la morte del Cid.
Tizona, la spada dell'eroe spagnolo è tuttora conservata a Madrid nel museo dell'esercito. Grande fama ha in Spagna anche il cavallo del Cid, Babieca, a cui sono stati dedicati monumenti e leggende.
Il Cantare del mio CId: il poema
Il poema del mio Cid è un poema epico formato da 3733 versi di un autore anonimo risalente al 1140, è considerato il primo documento letterario spagnolo perché scritto in antica lingua castigliana da cui deriva lo spagnolo moderno. Il manoscritto fu ritrovato soltanto alla fine del Settecento, privo delle prime pagine, recava la data del 1307 e il nome di Peter Abbat, un giullare o forse un copista.
Il poema narra fatti fondati sulla realtà storica, anche se ampiamente romanzati, e si compone di tre canzoni (cantares):la canzone dell’esilio (El cantar del destriero),la canzone delle nozze (El cantar de las bodas) e la canzone dell’oltraggio di Corpes (El cantar de la afrenta de corpes).
Nella prima parte Rodrigo Diaz (El Cid Campeador), vassallo del re, viene accusato da cortigiani maligni di essersi appropriato di una parte dei tributi dovuti dai mori ad Alfonso VI. Esiliato dal re,lascia la moglie Jimena e le figlie Elvira e Sol nel monastero di Gardena e vaga per la Spagna con un gruppo di amici fidati, compiendo imprese a danno dei mori fino alla riconquista di Valencia. Nella seconda parte le sue figlie vanno in spose agli infanti di Càrion, due uomini senza scrupoli, che, umiliati dal Cid durante una festa di corte, nella terza parte del poema, decidono di vendicarsi oltraggiando le loro spose e lasciandole in preda alle belve feroci. Le due donne vengono poi salvate da Felez Munoz nipote del Cid, il quale sfida i due infanti a duello e li uccide. Il poema si conclude con il Cid che riottiene le sue terre, mentre le figlie vanno in spose ad altri due infanti di più nobile carattere.
Il Cantare del mio CId: i temi fondamentali
Il Cantare del Cid celebra innanzi tutto le gesta eroiche dei combattenti della Reconquista.
Il poema permette, inoltre, di comprendere i valori morali, le virtù tipiche della società feudale di quel tempo come:
-         il senso dell’onore e della giustizia;
-         la fedeltà e la lealtà del cavaliere verso il proprio signore e il proprio sovrano;
-         la fede in Dio

martedì 24 luglio 2012

epica medioevale


L’epica cavalleresca
Dall’epica del mondo antico all’epica medioevale.
Dopo avere letto alcuni episodi dell’Iliade, dell’Odissea e dell’Eneide, i tre grandi poemi epici del mondo antico, greco e latino; avete imparato che per epica si intende la narrazione poetica delle imprese gloriose, straordinarie  di un popolo, dei suoi eroi, dei suoi dei. La poesia epica, però non si esaurì con i poemi di Omero e Virgilio.
 Nel periodo medioevale, infatti, e nei secoli successivi, ebbe una vasta diffusione, dando origine a un gran numero di poemi e romanzi in prosa.
Nell’alto medioevo, quando l’impero romano di Occidente è definitivamente tramontato, nascono nuovi regni in cui elementi culturali di origine romana si fondono con gli apporti delle diverse culture barbariche, preparando il terreno alla formazione delle future monarchie nazionali che determineranno poi le sorti dell’Europa moderna e contemporanea: queste profonde trasformazioni interessano l’economia, la società, il diritto e le tecniche militari.
Tra il VII e l’VIII secolo, ai confini dell’Europa si affacciano due popolazioni nuove, gli Arabi, che attraverso lo stretto di Gibilterra sbarcano in Spagna e minacciano il continente, e gli Avari, che muovendosi dall’Asia centrale verso occidente determinano lo spostamento verso l’Europa centrale di molti altri gruppi seminomadi, tra cui i Longobardi.
Pur essendo civiltà diversissime tra loro, Arabi e Avari sono accomunati dall’uso del cavallo negli scontri bellici e ciò costringe le popolazioni europee che entrano in conflitto con loro – in primo luogo i Franche – a trasformare il proprio modo di combattere per potersi opporre efficacemente agli invasori: negli scontri militari viene utilizzata massicciamente la cavalleria e dall’VIII secolo il cavaliere diviene la figura centrale di ogni azione militare.
Gli elementi che caratterizzano la civiltà medioevale fin dal suo nascere sono due: la fede e le armi. La fede da valore tanto alle gesta degli eroi, quanto alla vita quotidiana della gente; l’uso delle armi, invece, è la principale attività dei nobili cavalieri.
Dopo la caduta dell’Impero romano nascono i nuovi regni romano barbarici, il cui patrimonio di miti e leggende viene trasmesso in forma poetica utilizzando le lingue volgari, ossia le lingue locali che progressivamente sostituiscono il latino. Riprende così vigore in Europa la tradizione dei poemi epici, che ora celebrano la nascente società feudale e sono dominati dalla figura del cavaliere, un personaggio che agisce sulla spinta di alti ideali come la difesa dei deboli, delle donne e della fede cristiana.
È per questo motivo che nel medioevo si parla di epica cavalleresca, anche se i diversi poemi assumono di volta in volta caratteristiche specifiche in relazione alla realtà storica e culturale all’interno della quale vengono elaborati.
L’eroe dell’epica medioevale è il cavaliere “senza macchia e senza paura”, che combatte in difesa della fede cristiana, della patria, della giustizia. I poemi medioevali, anche se arricchiti di elementi fantastici, rispecchiano senz’altro la realtà sociale e culturale del tempo, centrata sul  cavaliere considerato un campione della fede e un difensore delle cristianità contro gli infedeli. Figura importante dei poemi  è quella del cavaliere errante per lo più figlio cadetto dei feudatari. Questi non possedendo un feudo proprio, si mette  a disposizione di un signore o del re: durante la cerimonia dell’investitura, presta giuramento di fedeltà promettendo di mettere le proprie armi al servizio della Chiesa e “di non usare mai la spada per ferire qualcuno ingiustamente, ma sempre per difendere causa nobili e giuste”. Difendere la fede cristiana da ogni nemico, difendere l’integrità e l’onore del proprio signore e della propria terra, soccorrere i poveri, gli orfani e le vedove: questi sono i compiti degli eroi del mondo medioevale.
I giullari, i cantastorie del tempo che si spostano da un luogo all’altro dell’Europa, diffondono le vicende di questi eroi. I loro semplici racconti – spesso in versi, in modo tale da poter essere cantati con l’accompagnamento di  strumenti musicali – si  arricchiscono man mano di nuove storie e avventure, attorno al nucleo centrale di alcuni temi ricorrenti: la guerra agli infedeli, l’abilità nelle armi, la fedeltà al re. A partire dal XII secolo, alcuni scrittori riuniscono e perfezionano questi racconti, componendo opere di grande valore artistico, umano e storico.
L’epica cavalleresca  medioevale.
Nell’Europa occidentale si sviluppano due filoni narrativi fondamentali: le Canzoni di Gesta e i Romanzi della Tavola Rotonda. Del primo filone fa parte, per esempio, la Chanson de Roland, che apre il cosiddetto ciclo carolingio ( una serie di poemi dedicati ai paladini di Carlo Magno ). Il secondo filone è costituito dai romanzi che narrano le avventura dei cavalieri di re Artù e viene chiamato anche ciclo bretone, dal nome della regione in cui si svolgono le vicende (la zona della Bretagna, che comprendeva l’odierna Inghilterra e il nord della Francia). Il ciclo carolingio si sviluppa contemporaneamente al ciclo bretone  ma, mentre il primo si diffonde in misura maggiore tra il popolo, il secondo trova il suo pubblico soprattutto nelle corti del nord della Francia. I romanzi di re Artù, infatti, sono più raffinati rispetto alle opere del ciclo carolingio: l’intreccio è più complesso e i temi non sono solo guerreschi, ma anche amorosi.
Il ciclo carolingio. Tra le tante guerre che Carlo Magno, re dei Franchi, combatté e vinse in Europa contro Bavari, Frisoni, Slavi, Avari, Bretoni e Longobardi, quelle contro gli arabi – che nel 771 avevano occupato quasi tutta la Spagna  costituendo una minaccia per l’Europa cristiana ­– non sono ricordate nella storia come le più gloriose: Carlo Magno, infatti, nelle sue spedizioni riuscì a strappare agli Arabi soltanto un piccolo territorio al di là dei Pirenei.
Nella letteratura, invece, furono proprio queste guerre del re cristiano contro i musulmani (chiamati anche saraceni o mori)  che riempirono le pagine di biblioteche intere ed ebbero enorme fortuna popolare, soprattutto in Spagna e in Italia.  Le imprese attribuite al re dei Franchi e ai suoi paladini ( i dodici cavalieri che formavano la guardia del corpo del re) cominciarono ad essere scritte – in prosa e in versi – alcuni secoli dopo che si erano svolte, quando in Europa furono organizzate le crociate per liberare Gerusalemme e la Palestina, occupate dai Turchi musulmani. Il racconto delle guerre, combattete e vinte dal re cristiano contro i musulmani di Spagna, accendeva gli animi, mentre i crociati, come i gloriosi paladini di un tempo, si preparavano a partire per andare a liberare il Santo Sepolcro dai Turchi.
Con l’andar del tempo si spense l’entusiasmo per le guerre sante e non furono più organizzate crociate, ma i duelli e le battaglie tra cavalieri cristiani e musulmani continuarono ad essere scritti e raccontati  come esempio di ogni contesa e di ogni avventura. Predominante, infatti, per tutta l’epoca medioevale rimane la figura del cavaliere impegnato a combattere in difesa della fede.
Re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda.   Le storie di questo ciclo narrano ancora di cavalieri solitari, i cavalieri della Tavola Rotonda di re Artù, sempre in viaggio alla ricerca di avventure e amori, mossi da sentimenti di lealtà, di devozione, di cortesia.
La crisi della cavalleria.
 Dopo il periodo medievale, l’ideale cavalleresco sopravvisse, ma fu lentamente svuotato del suo valore fino a ridursi, nelle corti rinascimentali, a pura esteriorità. Nel 1400-1500 con l’affermazione della civiltà umanistica e rinascimentale, la figura del cavaliere si trasforma. Egli ora, nei poemi epici, non viene più rappresentato come l’eroe per eccellenza, il depositario di tutte le virtù, bensì come un uomo, con le  debolezze, le passioni tipiche degli altri uomini. D’altra parte tale trasformazione riflette la nuova realtà e mentalità del Rinascimento, attenta a valorizzare l’uomo e i suoi sentimenti. In questo periodo inoltre la materia cavalleresca intende soddisfare le esigenze di una società aristocratica di gusti ricercati, più facile a entusiasmarsi per le narrazioni di amore e avventura, che per le vicende di guerra e di dedizione al dovere.  Nelle corti rinascimentali si continuavano ad ascoltare storie che avevano per protagonisti i cavalieri; non più però per esaltarne gli alti ideali, ma per divertire i nobili con il racconto delle loro strabilianti avventure. Ormai in quell’epoca, in cui cominciavano a diffondersi le armi da fuoco, la figura del cavaliere apparve definitivamente tramontata e con essa gli ideali a cui si ispirava.  Gli scrittori del XV e del XVI secolo capirono tale declino e lo descrissero nelle loro opere – che riprendevano i racconti epico-cavallereschi medioevali – ora con ironia, come Ludovico Ariosto nel suo Orlando Furioso; ora con nostalgia, come Torquato Tasso nella Gerusalemme Liberata; ora con ironia e nostalgia insieme, come lo spagnolo Miguel de Cervantes nel suo Don Chisciotte.
Orlando, paladino di Francia, protagonista dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, non è più rappresentato come un valoroso difensore della fede, ma come un cavaliere che lascia il campo cristiano di Carlo Magno e la difesa di Parigi, travolto dalla passione amorosa per la bellissima Angelica, figlia del re del Catai.Nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, invece, il cavaliere torna ad essere l’eroe animato da forti ideali religiosi, anche se tormentato de passioni terrene. Infine nel 1600 il Don Chisciotte dell’autore spagnolo Miguel de Cervantes segna la definitiva scomparsa del cavaliere medioevale. Don Chisciotte non è altro che una patetica figura di cavaliere che vive “da folle” avventure appartenenti a un mondo ormai passato.

giovedì 3 maggio 2012

Proemio Eneide


Canto le armi,
canto l'uomo che primo da Troia
venne in Italia, profugo per volere del Fato
 sui lidi di Lavinio. A lungo travagliato
e per terra e per mare dalla potenza divina
a causa dell'ira tenace della crudele Giunone,
molto soffrì anche in guerra: finché fondò una città
e stabilì nel Lazio i Penati di Troia,
origine gloriosa della razza latina
e albana, e delle mura di Roma, la superba.
Musa, ricordami tu le ragioni di tanto
doloroso penare: ricordami l'offesa
e il rancore per cui la regina del cielo
costrinse un uomo famoso per la propria pietà
a soffrire così, ad affrontare tali
fatiche. Di tanta ira son capaci i Celesti?

Versione in prosa del proemio


Canto le imprese militari (battaglie)
ed Enea, il primo uomo che da Troia
giunse in Italia, fuggiasco (profugo) per volere del Fato (destino)
sui lidi del Lazio dove sarebbe sorta Lavinio. Sospinto a lungo
sia per terra che per mare dall’ostilità degli dei
a causa dell'ira tenace della crudele Giunone,
molto soffrì anche in guerra: finché fondò una città
e stabilì nel Lazio i Penati di Troia,
origine gloriosa della razza latina
e albana, e delle mura di Roma, la superba.
Musa, ricordami tu i motivi di tanto
doloroso penare: ricordami l'offesa
e il rancore per cui la regina del cielo
costrinse un uomo famoso per la propria pietà
a soffrire così, ad affrontare tali
fatiche. Tanto grande è la furia degli dei?

commento al proemio


 Anche l’Eneide comincia con un proemio nel quale si riassume l’argomento, si introduce il protagonista e si invoca la Musa senza però chiederle l’ispirazione, infatti con il termine "canto" il poeta sottolinea la sua originalità.
Fin dai primi versi emergono alcuni aspetti originali del proemio di Virgilio, tra cui la convinzione che la storia umana sia caratterizzata dal dolore e dalla sofferenza e l’interpretazione della missione di Enea come fattore determinante per la nascita di una nuova e superiore civiltà: quella romana.
Un altro elemento di novità è costituito dalle caratteristiche morali e psicologiche dell’eroe troiano, che non è aggressivo e feroce come il protagonista dell’Iliade, Achille, né astuto e sagace come il greco Odisseo, ma è soprattutto dotato di pietas, un insieme di devozione religiosa, amore per la patria,rispetto verso la famiglia e capacità di anteporre il bene comune al proprio interesse personale.

Esercizi sul proemio


  1. Quali eventi futuri vengono anticipati nel proemio?
  2. Secondo te gli eventi futuri citati nei versi 7-10  sono fatti storici o leggende?
  3. Cosa chiede Virgilio alla Musa? 
  4. Quale caratteristica morale distingue Enea dagli altri uomini? Sottolinea l’espressione utilizzata da Virgilio.
  5. La convinzione di Virgilio che la vita e la storia umana siano soprattutto dolore emerge da numerose espressioni che richiamano il concetto di sofferenza e difficoltà: sottolineale e trascrivile sul quaderno

lunedì 19 marzo 2012

Il riassunto



Riassumere significa esporre brevemente e con parole proprie il contenuto essenziale di una narrazione più ampia e particolareggiata.
Il riassunto ha due funzioni, una per chi lo fa e una per chi lo legge.
L’arte del riassumere è importante e utilissima e la si impara mettendole in atto.
Fare riassunti serve a condensare le idee, in altre parole insegna a scrivere.
Le domande fondamentali:
     CHI? (i personaggi)
DOVE? (il luogo)
PERCHE’? (il motivo)
CHE COSA? (il fatto)
QUANDO? (il tempo)
Scheda guida per fare il riassunto:
Leggere attentamente il racconto e capirne bene il significato generale cercando sul vocabolario il significato di eventuali parole difficili o sconosciute.

Dividere il racconto in parti o sequenze per capire la successione logica dei fatti.

Individuare  i fatti principali, eliminando quelle informazioni (anche intere sequenze) che non sono indispensabili per lo svolgimento del racconto, ma che servono semplicemente ad arricchirlo. 
Esporre   con parole proprie, in forma sintetica e con periodi semplici e scorrevoli, il contenuto essenziale del racconto, usando un linguaggio referenziale, che si limiti cioè a riferire i fatti così come sono, senza alcuna considerazione personale.
In quest’ultima operazione vi sono delle precise regole da osservare:
-         trasformare il discorso diretto in discorso indiretto facendo attenzione al cambiamento di persona (da 1° a 3°) al verbo ai pronomi personali, agli aggettivi e pronomi possessivi;
-         scegliere il tempo verbale da usare nelle proposizioni principali e mantenerlo nello svolgimento del riassunto.

Come analizzare un racconto


   

Il racconto è costituito da una trama, cioè l’ossatura fondamentale della storia che si sviluppa nelle sequenze. La sequenza  è una parte di racconto che rivela unità di tempo, luogo, azione, contenuto.
Le sequenze: narrano, descrivono, esprimono giudizi o riflessioni dei personaggi, esprimono giudizi e riflessioni dell’autore.
Per individuare il passaggio da una sequenza all’altra esistono dei segnali indicatori:
a)      introduzione o nascita di un personaggio;
b)      cambiamento di luogo;
c)      cambiamento di tempo;
d)      cambiamento di modalità del testo: passaggio dalla narrazione alla descrizione, al dialogo.
Tra una sequenza e l’altra ci deve essere una differenza di contenuto (a,b,c) o di forma (d).
Il racconto si sviluppa attorno ai personaggi.   I personaggi possono essere analizzati secondo:
-         aspetto;
-         comportamento;
-          sentimenti, carattere.
In base al ruolo che i personaggi hanno nella storia si possono cogliere le relazioni, cioè i rapporti che hanno tra loro. Si possono individuare:
a)      relazioni positive: amore, collaborazione;
b)      relazioni conflittuali: scontro, contrapposizione;
c)      relazioni di indifferenza: i personaggi agiscono vicini senza avere relazioni.
Il racconto può essere narrato:
-         dal protagonista;
-         da un personaggio marginale;
-         da un narratore esterno che sembra sapere e vedere ogni fatto, ogni evento.
Per analizzare un racconto si devono cogliere:
a)      le caratteristiche dei luoghi;
b)      la dimensione temporale come successione o durata.
I personaggi sono l’elemento fondamentale del racconto, oltre i personaggi possono avere un ruolo importante: oggetti, animali, elementi del paesaggio. Oltre le relazioni tra personaggi è importante cogliere l’evoluzione psicologica e le trasformazioni interiori.
I luoghi.  Per analizzare i luoghi occorre (oltre all’individuazione):
-         distinguere se reali o immaginari;
-         enucleare ciò che li caratterizza;
-         riflettere sulle modalità di presentazione:
1.      esauriente e dettagliata;
2.      con annotazioni esplicite riportate dall’autore;
3.      senza nessuna informazione diretta per cui i luoghi vanno dedotti.
-         esaminare il ruolo della descrizione che può:
1.      introdurre le vicende;
2.      interrompere la successione degli eventi;
3.      riflettere e rispecchiare la psicologia dei personaggi.
I tempi. L’analisi dei tempi di una storia riguarda:
-         l’ordine degli avvenimenti narrati che può:
1.      essere cronologico, seguire la successione temporale reale;
2.      anticipare fatti futuri;
3.      ricordare eventi passati.
-         la durata degli avvenimenti. Per esaminare la durata degli avvenimenti occorre riflettere sul rapporto tra tempo del discorso e tempo della storia. Il tempo della storia è il tempo della durata reale degli avvenimenti, il tempo del discorso è il tempo della narrazione. Si possono verificare tre tipi di rapporto tra i due diversi tempi:
1.      il tempo del discorso è più breve di quello della storia, narratore che riassume;
2.      il tempo del discorso è uguale a quello della storia, dialoghi;
3.      il tempo del discorso è più lungo di quello della storia, il narratore sospende il racconto per lunghe riflessioni o descrizioni.