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domenica 16 novembre 2014
venerdì 14 novembre 2014
mito dell'olivo
L'olivo nella mitologia
Un mito greco attribuisce ad Atena la nascita del
primo olivo che sorse nell'Acropoli a protezione della città di
Atene. La leggenda racconta che Poseidone ed Atena, disputandosi la
sovranità dell'Attica, si sfidarono a chi avesse offerto il più bel
dono al popolo. Poseidone, colpendo con il suo tridente il suolo,
fece sorgere il cavallo più potente e rapido, in grado di vincere
tutte le battaglie; Atena, colpendo la roccia con la sua lancia, fece
nascere dalla terra il primo albero di olivo per illuminare la notte,
per mendicare le ferite e per offrire nutrimento alla popolazione.
Zeus scelse l'invenzione più pacifica ed Atena divenne la dea di
Atene. Un figlio di Poseidone cercò di sradicare l'albero di Atena,
ma non vi riuscì, anzi si ferì nel commettere il gesto sacrilego e
morì. Quella roccia che resistette era appunto l'Acropoli, dove la
pianta dell'olivo venne presidiata dai soldati perchè sacra ai
greci.
Secondo una leggenda riferita da Plinio e da
Cicerone, sarebbe stato Aristeo lo scopritore dell'olivo e
l'inventore del modo di estrarre l'olio, all'epoca fenicia.
L'olivicoltura era molto diffusa al tempo di Omero; L'Iliade e
l'Odissea narrano spesso dell'olivo e del suo olio. Stupenda la
descrizione della camera da letto nella quale Penelope accolse Ulisse
al suo ritorno, e che Ulisse stesso aveva costruito prima della sua
partenza con legno d'olivo.
A Roma l'olivo era dedicato a Minerva e Giove. I
romani, pur nella loro praticità di considerare l'olio d'oliva come
merce da esigere dai vinti, da commerciare, da consumare, mutuarono
dai Greci alcuni aspetti simbolici dell'olivo. Onoravano i cittadini
illustri con corone di fronde di olivo, così pure gli sposi il
giorno delle nozze; i morti infine venivano inghirlandati per
significare di essere vincitori nelle lotte della vita umana.
Nell'area islamica molte leggende fanno riferimento
all'olivo e al suo prodotto; si ricorda la storia di Ali Babà e i 40
ladroni nascosti negli otri che dovevano contenere l'olio.
MITO
DELLA CREAZIONE DEL PRIMO ALBERO DI OLIVO E DEL PRIMO CAVALLO
Tutto
ebbe inizio quando a Zeus,
in quel periodo sposo di Metis,
fu predetto da Gea
e da Urano
che un giorno Metis avrebbe partorito due figli, il secondo dei quali
lo avrebbe detronizzato. Zeus, spaventato da quella profezia e dato
che Metis era incinta del loro primo figlio, decise di non correre
rischi e la ingoiò. Il tempo riprese a scorrere sereno per Zeus che
si era anche dimenticato della fine che aveva fatto fare alla moglie.
Un giorno però iniziò a essere assalito da violentissime fitte alla
testa. Non potendole sopportare chiese a Efesto
di colpirlo in testa con il suo martello. Efesto si rifiutava di
eseguire l'ordine in quanto non capiva cosa stesse succedendo ma date
le urla e le insistenze di Zeus alla fine lo colpì violentemente in
testa. Nel momento stesso in cui il suo martello toccò la testa di
Zeus l'Olimpo tremò, i lampi sconquassarono il cielo e dal suo
cranio uscì una densa nuvola nella quale si trovava una creatura,
vestita con una lucente armatura, che teneva alla sua destra un
giavellotto: era nata Atena
(o Athena), la dea guerriera che si sarebbe contrapposta ad Ares
personificazione della guerra brutale e violenta.
Atena
manifestò presto le sue eccezionali doti non solo come guerriera ma
anche come donna saggia a accorta. Infatti divenne ben presto anche
la dea della ragione, della arti, della letteratura, della filosofia,
del commercio e dell'industria. Era la personificazione della
saggezza e della sapienza in tutti i campi delle scienze conosciute a
alle donne insegnò anche a tessere, a tingere e a ricamare.Con il
passare del tempo Atena chiese al padre che le fosse consacrata una
regione della terra che la potesse onorare. Già da diverso tempo
però Poseidone
era in attesa che Zeus gli assegnasse una regione e fu così che tra
le due divinità si accese una violenta disputa per avere il dominio
sull'Attica.
Zeus,
dato che non sapeva che fare decise allora di proclamare una sfida
tra Poseidone a Atena:
chi tra i due avesse fatto alla città il dono più utile, ne avrebbe
avuto la supremazia e Cecrope*
fu posta ad arbitro della contesa.
Quando
la sfida iniziò alla presenza di tutti gli dei, Poseidone toccò con
il suo tridente la terra e fece saltar fuori una nuova creatura che
mai prima di allora si era vista, il cavallo che da quel momento
popolò tutte le regioni della terra e divenne un grande aiuto per la
vita dell'uomo. Atena, dal canto suo percosse il suolo con il suo
magico giavellotto e in conseguenza di ciò scaturì dal terreno un
albero di olivo.Cecrope, decise che fosse Atena la vincitrice e da
quel giorno la capitale dell'Attica fu chiamata Atene
in onore della dea. Da quel momento la vita iniziò a scorrere serena
in Attica a Atena insegnava al suo popolo le scienze e le arti.
Cecrope
era figlio di Gea che arrivò in Grecia dall'Egitto, sua terra
natale, dove fondò la città che in seguito sarebbe stata chiamata
Atene e della quale era re.
mercoledì 9 ottobre 2013
il cinque maggio.
Parafrasi
Egli
non è più. Come immobile,
dopo
aver esalato l’ultimo respiro,
rimase
il corpo senza vita e senza memoria
privato
di uno spirito così grande,
così
colpita, stupefatta
la
terra alla notizia della sua morte resta immobile,
ammutolita,
pensando al momento
della
morte dell’uomo mandato dal destino;
non
sa quando una uguale
impronta
di piede mortale
la
sua polvere insanguinata
tornerà
a calpestare.
Napoleone
nel momento di gloria (sfavillante sul trono)
vide
il mio genio poetico ma non parlò;
quando
Napoleone con avvicendarsi incessante,
cadde,
si risollevò e ricadde definitivamente
al
suono di mille voci
(il
mio genio) non ha mischiato la sua:
(il
mio genio) è vergine da elogi servili
e
da insulti vigliacchi,
(il
mio genio) si leva ora commosso all’improvvisa
sparizione
di una figura così radiosa;:
e
innalza alla tomba un canto
che
forse resterà immortale.
Dalle
Alpi alle Piramidi
dal
Manzanarre al Reno
di
quell’uomo risoluto l’azione fulminea
seguiva
immediatamente la decisione rapida;
la
sua azione esplose da Scilla al Tanai,
dall’uno
all’altro mare.
Fu
una vera gloria? Alle generazioni future
la
difficile risposta: noi
ci
inchiniamo a Dio,
che
ha voluto su di lui
del
suo spirito creatore
imprimere
un segno più grande.
La
tempestosa e trepidante
gioia
di un grandioso progetto,
l’ansia
di un animo che indomito
serve,
pensando a comandare:
e
lo raggiunge, e ottiene un premio
ch’era
follia sperare di ottenere;
tutto
egli provò: la gloria
più
grande dopo il pericolo,
la
fuga e la vittoria,
la
reggia (il potere) e il triste esilio:
due
volte è stato sconfitto
due
volte ha raggiunto il trionfo.
Egli si
presentò alla storia: due secoli,
contrapposti,
si
rivolsero a lui rispettosamente,
in
attesa del loro destino;
egli
fece silenzio, e come un arbitro
sedette
in mezzo a loro.
E
scomparve, e i giorni nell’ozio
concluse
in un’isola così piccola,
bersaglio
di un’invidia immensa
e
di un profondo rispetto,
di
odio inestinguibile
e
di amore invincibile.
Come
sul capo del naufrago
l’onda
incombe vorticosa e grava,
l’onda
su cui lo sguardo (la vista) dello sventurato,
poco
prima scorreva alto e proteso, ad
avvistare
invano
lontani approdi;
così
su quell’anima il cumulo
dei
ricordi si abbattè!
Oh
quante volte ai posteri
cominciò
a narrare le sue memorie,
e
sulle pagine eterne (anche nel senso di mai finite)
cadde
la sua mano stanca!
Oh
quante volte, al silenzioso
concludersi
di un giorno trascorso nell’inerzia,
abbassati
gli occhi brillanti,
le
braccia conserti al petto,
rimase,
e dei giorni passati
lo
assalì il ricordo!
E
ripensò agli accampamenti
spostati
continuamente, e alle trincee nemiche colpite,
al
muoversi fulmineo dei plotoni,
all’incalzare
ondeggiante della cavalleria,
agli
ordini concitati,
alla
loro rapida esecuzione.
Ahi!
Forse di fronte a tanto dolore
si
smarrì il suo animo affannato,
e
perse ogni speranza; ma provvidenziale
venne
una mano dal cielo,
e
in un’atmosfera più serena
pietosa
lo trasportò;
e
lo guidò per i fioriti
sentieri
della speranza,
verso
l’eternità, al premio
che
supera ogni desiderio umano
dov’è
silenzio e tenebre
la
gloria del passato.
Immortale! Benefica
Fede abituata ai trionfi!
Scrivi anche questo trionfo,
gioisci;
perché uomo più potente
mai si è chinato di fronte
alla croce.
Tu Fede dalle spoglie mortali
stanche
allontana ogni parola di
condanna e di odio:
Dio che abbatte e resuscita,
che affanna e che consola con
la misericordia
sul letto solitario
siede
accanto a Napoleone,
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mercoledì 2 ottobre 2013
il sabato del villaggio
IL SABATO DEL VILLAGGIO Giacomo Leopardi
La donzelletta1 vien dalla campagna
in sul calar del sole2,
col suo fascio dell'erba; e reca3 in mano
un mazzolin di rose e viole,
onde, siccome suole4,
ornare ella si appresta
dimani, al dí di festa5, il petto e il crine6.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno7;
e novellando vien del suo
buon tempo8,
quando ai dí della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea9 danzar la sera intra di quei10
ch'ebbe compagni dell'età piú bella.
Già tutta l'aria imbruna11,
torna azzurro il sereno12, e tornan l'ombre
giú da' colli e da' tetti13,
al biancheggiar della recente luna14.
Or la squilla dà segno15
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta16.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta17,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore18;
e intanto riede alla sua parca
mensa19,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo
riposo20.
Poi quando intorno è spenta ogni altra
e tutto l'altro tace22, [face21
odi il martel picchiare, odi
la sega
del legnaiuol23, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna24,
e s'affretta, e s'adopra
di fornir l'opra
anzi il chiarir dell'alba25.
Questo26 di sette è il più gradito giorno,
pien di speme27
e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore28, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno29.
Garzoncello scherzoso30,
cotesta età fiorita31
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita32.
Godi, fanciullo mio; stato
soave,
stagion lieta è cotesta33.
Altro dirti non vo'34; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave35.
1:la
fanciulla
2:
all’ora del tramonto
3:
porta
4:con
il quale, nel modo in cui è solita(suole) fare
5:
ella si prepara a ornare domani, nel giorno di festa
6: i
capelli
7:
rivolta a occidente, verso il tramonto
8:
raccontando (novellando) del suo tempo felice, la giovinezza
9:
era solita
10:
insieme a quelli
11:
si fa scura
12:
il cielo torna ad essere azzurro
13:
e le ombre, scomparse dopo il tramonto, riappaiono dai colli e dai tetti
14:
sotto la luce della luna appena sorta
15;
ora la campana (squilla) annuncia
16:
si consola
17:
in gruppo
18:
un chiasso gioioso
19:
ritorna (riede) alla sua povera cena
20:
pensa fra sé e sé alla giornata seguente in cui si riposerà
21:
luce
22:
e ogni cosa è immersa nel silenzio
23:
del falegname
24:
alla luce del lume
25:
si sforza (s’adopra) di terminare il lavoro (l’opra) prima che ritorni la luce
del giorno
26:
il sabato
27:
speranza
28:
domani le ore porteranno tristezza e noia
29:
ciascuno tornerà con il pensiero al lavoro abituale
30:
fanciulletto allegro
31:
la fanciullezza
32:
anticipa l’età adulta
33:
la giovinezza è una condizione dolce e gioiosa
34:
non voglio dirti altro
35:
ma non ti dispiacere (non ti sia grave) se la festa della tua vita tarderà ad
arrivare
ESERCIZI
1. In quale luogo e in quale momento della
settimana si svolge la scena descritta da Leopardi?
2. Riassumi brevemente le azioni compiute dai
diversi personaggi presenti nel testo spiegando quale elemento li accomuna.
Donzelletta…
Vecchierella…
Zappatore…
Falegname…
Elemento in comune…
3. Quali suoni e rumori rendono più ricca e
vivace la descrizione che il poeta fa del villaggio?
4. Nell’ultima strofa della poesia Leopardi si
rivolge a un interlocutore immaginario: chi è? Che cosa rappresenta?
5. A quali elementi dell’esistenza umana
corrispondono simbolicamente il sabato
e la domenica?
6. La poesia si divide in una parte
descrittiva e in una riflessiva. Quali
versi sono dedicati alla descrizione e quali alla riflessione?
7. Leggendo questa poesia ti sarai accorto della
sua grande musicalità: questa è dovuta, oltre che a un uso sapiente dei versi
endecasillabi e settenari, all’uso ricorrente di assonanze e allitterazioni.
Individuane alcune.
8. Spiega la metafora presente nell’espressione
“età fiorita”.
9. Confronta
Il sabato del villaggio con Il passero solitario e indica se le
affermazioni che seguono sono vere [V] o false [F]
- Entrambi i testi sono ambientati a Recanati.
- In entrambi Leopardi contrappone la giovinezza alla vecchiaia.
- Le due poesie esprimono una diversa concezione dell’infelicità umana.
- Solo nel Sabato del villaggio viene descritta la vita degli abitanti di Recanati.
10. Pensi anche tu, come il poeta, che il sabato
sia “il più gradito giorno” e che la domenica porti con sé “tristezza e noia”,
o hai un’opinione diversa? Spiega il tuo punto di vista descrivendo come
trascorri di solito queste due giornate.
La fanciulla (la
donzelletta – diminutivo arcaico)
ritorna dalla campagna [torna dal lavoro nei campi] al tramontar del sole (in
sul = verso il), portando un fascio
d’erba e tiene in mano un mazzolino di rose e di viole (ha l'erba per le
bestie, come tutti i giorni, ma in mano ha viole e rose come segno della
festa), delle quali (onde), come
è solita (suole), si prepara a
ornare l'indomani, giorno di festa, il petto e i capelli (crine).
[Alla baldanza giovanile della donzelletta viene contrapposta la quiete della vecchierella]
Intanto sulle scale (i gradini dell'uscio di casa) siede con le vicine la vecchierella a filare, rivolta là (incontro là) dove tramonta il sole e racconta (novellando vien = raccontando con tono di fiaba) della sua giovinezza (suo buon tempo - metafora), quando anch’ella si preparava la domenica e ancora giovane e bella era solita (solea, torna l'idea della cara abitudine) andare a ballare con coloro che erano giovani come lei (ebbe compagni nell’età più bella – “età più bella” è metafora).
Ormai (già, esprime il rapido volgere della sera) inizia a scurire (l’aria imbruna), il cielo (il sereno) torna azzurro (metonimia), e al biancheggiare della luna appena sorta (recente luna) ritornano giù dai colli e dalle case le ombre (dopo che erano sparite al tramontare del sole tornano a disegnarsi per terra). Ora la campana (la squilla) dà segno della festa che sta arrivando (metonimia); e a quel suono, si direbbe (diresti, con valore impersonale) che il cuore si consola (si riconforta: per un momento dimentica i suoi mali).
I fanciulli (sono i primi a gioire della festa tanto attesa) gridando in gruppo (in frotta) sulla piazzola, e saltando di qua e di là fanno un rumore allegro (lieto – perché suscita gioia); e intanto il contadino torna (riede forma arcaica che suggerisce l’impressione del camminare lento e cadenzato di chi è stanco) alla sua povera casa (parca mensa), fischiettando (in segno di letizia lui pure) e fra sé e sé (seco) pensa al giorno del suo riposo.
[Alla baldanza giovanile della donzelletta viene contrapposta la quiete della vecchierella]
Intanto sulle scale (i gradini dell'uscio di casa) siede con le vicine la vecchierella a filare, rivolta là (incontro là) dove tramonta il sole e racconta (novellando vien = raccontando con tono di fiaba) della sua giovinezza (suo buon tempo - metafora), quando anch’ella si preparava la domenica e ancora giovane e bella era solita (solea, torna l'idea della cara abitudine) andare a ballare con coloro che erano giovani come lei (ebbe compagni nell’età più bella – “età più bella” è metafora).
Ormai (già, esprime il rapido volgere della sera) inizia a scurire (l’aria imbruna), il cielo (il sereno) torna azzurro (metonimia), e al biancheggiare della luna appena sorta (recente luna) ritornano giù dai colli e dalle case le ombre (dopo che erano sparite al tramontare del sole tornano a disegnarsi per terra). Ora la campana (la squilla) dà segno della festa che sta arrivando (metonimia); e a quel suono, si direbbe (diresti, con valore impersonale) che il cuore si consola (si riconforta: per un momento dimentica i suoi mali).
I fanciulli (sono i primi a gioire della festa tanto attesa) gridando in gruppo (in frotta) sulla piazzola, e saltando di qua e di là fanno un rumore allegro (lieto – perché suscita gioia); e intanto il contadino torna (riede forma arcaica che suggerisce l’impressione del camminare lento e cadenzato di chi è stanco) alla sua povera casa (parca mensa), fischiettando (in segno di letizia lui pure) e fra sé e sé (seco) pensa al giorno del suo riposo.
Poi quando intorno
tutti i lumi (face - latinismo)
sono spenti e tutto è silenzio (tace – face/tace è rima baciata), senti (odi...odi, anafora)
il martello picchiare, senti la sega del falegname, che sveglio nella sua
bottega chiusa, alla luce della lucerna, si affretta e si adopera per finire il
lavoro (fornir l'opra) prima
della luce dell’alba.
Questo è il giorno
[il sabato, che si è appena concluso] più gradito della settimana (di
sette), pieno di speranza (speme) e di gioia: domani le ore porteranno
tristezza e noia, e ognuno tornerà col pensiero (in suo pensier farà
ritorno) alla fatica di tutti i giorni
(il travaglio usato).
Ragazzo (Garzoncello, l'uso del diminutivo indica affetto)
allegro/scanzonato (scherzoso),
questa giovinezza (età fiorita -
metafora)
è come un giorno pieno di felicità (similitudine),
luminoso, sereno, che precede la maturità (festa di tua vita - metafora,
dunque la fanciullezza è simile al sabato, che promette gioia, la maturità alla
domenica, in cui ogni illusione svanisce).
Godi o fanciullo [quanto puoi] della giovinezza; questa è una condizione (stato) beata, un’età gioiosa (stagion lieta - metafora).
Non voglio dirti altro; ma non ti pesi che la tua festa tardi ancora a venire [cioè non aver fretta di crescere].
Godi o fanciullo [quanto puoi] della giovinezza; questa è una condizione (stato) beata, un’età gioiosa (stagion lieta - metafora).
Non voglio dirti altro; ma non ti pesi che la tua festa tardi ancora a venire [cioè non aver fretta di crescere].
Commento: : Il sabato del villaggio, scritto da Giacomo Leopardi
nel 1829 a
Recanati, fa parte dei "grandi idilli" e, come tale, si evidenziano
da subito in tutto il componimento i temi della rimembranza e dell'evanescenza
della giovinezza. Il tema predominante del componimento è rievocare "l'età
fiorita", tema che peraltro si ritrova in altri idilli come in A Silvia,
dove la ragazza è personificazione stessa della gioventù che sfiorisce.
L'autore invita a non aspettarsi felicità dal futuro, perché come la domenica
deluderà l'attesa del sabato, così la vita deluderà i sogni della giovinezza.
Leopardi, quindi, ritiene di non doversi aspettare niente, in modo da non
essere mai delusi.
Il poeta in questa lirica parla della vita che si conduce di sabato nel suo villaggio. Si può suddividere la poesia in due parti:
Il poeta in questa lirica parla della vita che si conduce di sabato nel suo villaggio. Si può suddividere la poesia in due parti:
- prima parte : descrittiva in cui regna l'allegria per i giorni di festa e successivamente il silenzio rotto dagli strumenti del falegname. I primi versi, infatti, oppongono la gioia ed il giorno alla serenità del sonno;
- parte finale: riflessiva dove il poeta guarda al domani quando la quotidianità infonderà il tedio e riflette sulla fugacità della giovinezza.
Negli ultimi versi il poeta oppone
l'oggi spensierato, metafora della giovinezza, al domani, simbolo della noia e
della vecchiaia.
Forma metrica: Canzone libera. Settenari e endecasillabi si alternano e
vi sono due versi non rimati (41 e 43).
Parallelamente alle tematiche il ritmo nei primi versi è più incalzante, scorrevole e spensierato, mentre diventa in chiusura, più pacato ed incline alla meditazione. Il ritmo agile e mosso è reso efficacemente attraverso l’utilizzo dei settenari, mentre il ritmo più lento è reso dall’endecasillabo.
Sono presenti numerose figure retoriche, oltre a quelle evidenziate nel testo a fronte della poesia, vi sono: Litote: "altro dirti non vo'" con la quale Leopardi esprime l'intenzione di non demoralizzare i giovani. Climax: I personaggi realizzano un climax prima crescente dopo decrescente: la donzelletta (gioventù) - la vecchierella (vecchiaia) - lo zappatore (età matura) - il garzoncello (gioventù).
Si possono notare inoltre, nella prima parte della poesia, allitterazioni con doppie (donzelletta, mazzolin, vecchierella, novellando, sulla, bella, colli...) o con dittonghi (giorno, chiaro, ciascuno, gioia, stagion, pien, pensier, lieta), o con ripetizione degli stessi suoni (in sul calar del sole; siccome suole).
L'uso dei diminutivi (donzelletta, vecchierella, garzoncello) denota la tenerezza del poeta verso i suoi personaggi, in particolare per gli adolescenti.
Parallelamente alle tematiche il ritmo nei primi versi è più incalzante, scorrevole e spensierato, mentre diventa in chiusura, più pacato ed incline alla meditazione. Il ritmo agile e mosso è reso efficacemente attraverso l’utilizzo dei settenari, mentre il ritmo più lento è reso dall’endecasillabo.
Sono presenti numerose figure retoriche, oltre a quelle evidenziate nel testo a fronte della poesia, vi sono: Litote: "altro dirti non vo'" con la quale Leopardi esprime l'intenzione di non demoralizzare i giovani. Climax: I personaggi realizzano un climax prima crescente dopo decrescente: la donzelletta (gioventù) - la vecchierella (vecchiaia) - lo zappatore (età matura) - il garzoncello (gioventù).
Si possono notare inoltre, nella prima parte della poesia, allitterazioni con doppie (donzelletta, mazzolin, vecchierella, novellando, sulla, bella, colli...) o con dittonghi (giorno, chiaro, ciascuno, gioia, stagion, pien, pensier, lieta), o con ripetizione degli stessi suoni (in sul calar del sole; siccome suole).
L'uso dei diminutivi (donzelletta, vecchierella, garzoncello) denota la tenerezza del poeta verso i suoi personaggi, in particolare per gli adolescenti.
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il passero solitario
Analisi del testo: “Il passero solitario” di Giacomo Leopardi
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core,
E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.
Parafrasi
Dalla cima dell’antica torre, passerotto
solitario, continui a cantare rivolto verso la campagna, finchè non termina la
giornata; e si diffonde il suono attraverso questa vallata. Intorno, nell’aria
brilla la primavera ed è nel pieno rigoglio nei campi, a tal punto che ad
ammirarla il cuore si commuove. Senti greggi belare, mandrie di buoi muggire;
gli altri uccelli felici, tutti insieme a gara fanno mille giri nel cielo
libero, festeggiando anch’essi il periodo migliore della loro vita: tu, invece,
pensieroso in disparte osservi tutto ciò che ti circonda; non ti curi dei
compagni, dei voli, di manifestare allegria, eviti i divertimenti; canti e così
passi l’epoca migliore dell’anno e della tua vita.
Ahimè, quanto è simile al mio il tuo modo di
vivere! Io non cerco, non so come sia possibile, il divertimento e il piacere,
dolci compagni della giovane età, né te, amore, compagno della giovinezza,
rimpianto amaro dei giorni dell’età matura; anzi quasi scappo lontano da loro;
quasi solitario ed estraneo al luogo in cui io sono nato, passo la giovinezza,
l’epoca più bella della mia vita. Si è soliti festeggiare al nostro paese
questo giorno che ormai lascia il posto alla sera. Senti attraverso il cielo
sereno un suono di campana, senti spesso uno sparo di armi da fuoco a salve,
che rimbomba lontano di casa in casa. La gioventù del luogo, tutta vestita a
festa, lascia le case e si sparge per le strade; e guarda ed è guardata, e si
rallegra nel cuore. Io solitario, uscendo diretto verso questa parte remota
della campagna, rinvio ad un altro momento ogni piacere e ogni gioco: e intanto
il sole, che, dopo un giorno sereno, sparisce nascendosi dietro monti lontani e
sembra che dica che la giovinezza felice se ne sta andando, mi ferisce lo
sguardo che si estende nell’aria soleggiata.
Tu, uccellino solitario, quando sarai giunto
verso la fine della vita che il destino ti darà, certamente non ti pentirai del
tuo modo di vivere; perché è frutto di una disposizione naturale ogni vostro
desiderio. A me, invece, se non otterrò di evitare l’odiosa soglia della
vecchiaia, quando questi occhi resteranno insensibili ai sentimenti altrui e
per loro il mondo sarà vuoto, e il giorno futuro sembrerà più noioso e cupo di
quello presente, che ne sembrerà di questo desiderio? Che me ne parrà di questi
miei anni? Che cosa di me stesso? Ahimè, mi pentirò e mi volgerò spesso
indietro, ma senza possibilità di consolazione.
Figure retoriche
- Allitterazioni: della “c”: “campagna / cantando” (vv. 2-3); “certo, costume” (v. 45) della “l”: “della / alla / valle, li, esulta”; “augelli / lo libero ciel, mille” (vv. 9-10); “lontan di villa in villa” (v. 31); “solingo augellin” (v. 45); della “r”: “belar, muggire, armenti” (v. 8); “romito e strano” (v. 24); “mira, mirata, cor” (v. 35) “tonar, ferree” (v. 30); della “g”: “greggi, muggire” (v. 8); “german di giovinezza” (v. 20) della “s”: “pensoso in disparte / schivi gli spassi / e così trapassi” (vv. 12-15); “sereno, suon, squilla” (v. 29); della “v”: “vostra vaghezza / vecchiezza”(vv. 49-50); della “m”: “pentirommi / ma volgerommi” (vv. 58-59); della “a” ricorrente in tutta la poesia: “campagna / cantando vai… erra l’armonia questa valle….mira ed è mirata e in cor s’allegra….rimota parte alla campagna…aria aprica…parrà di tal voglia”, ecc;
- Anafora: “che parria di tal voglia? / “che di questi anni miei? “che di me stesso?” (vv. 56-57);
- Onomatopea: “rimbomba” (v. 31);
- Chiasmi: “brilla nell’aria e per li campi esulta”; “odi greggi belar, muggire armenti” (v. 8);
- Metafore: “more il giorno” (v. 2); “di tua vita il più bel fiore” (v. 16); “a sera / del viver” (vv. 45-46); “di vecchiezza / la detestata soglia” (vv. 50-51);
- Metonimia: “la gioventù del loco” (v. 33) (= i giovani);
- Anastrofi: “dell’anno e di tua vita il più bel fiore” (v. 16); “del viver mio la primavera” (v. 26); “di natura è frutto” (v. 48); “di vecchiezza / la detestata soglia” (vv. 50-51);
- Anafore: “quasi fuggo lontano / quasi romito e strano” (vv. 23-24); “odi per lo sereno…/ odi spesso un tonar” (vv. 29-30);
- Apostrofi: “passero solitario” (v. 2); “e te, german di giovinezza, amore” (v. 20); “solingo augellin” (v. 45);
- Enjambements: “alla campagna / cantando vai” (vv. 1-2); “primavera dintorno / brilla nell’aria” (vv. 5-6); “a gara insieme / per lo libero ciel fan mille giri” (vv. 9-10); “trapassi / dell’anno e di tua vita il più bel fiore” (vv. 15-16); “somiglia / al tuo costume il mio” (vv. 17-18); “in questa / rimota parte” (vv. 36-37); “ogni diletto e gioco / indugio” (vv. 38-39); “il guardo / steso” (vv. 39-40); “di natura è frutto / ogni vostra vaghezza” (vv. 48-49); “di vecchiezza / la detestata soglia” (vv. 50-51); “soglia / evitar non impetro” (vv. 51-52).
Commento
Anche se, nell’edizione dei Canti
del 1835, è collocato prima dell’Infinito, come
prologo agli idilli, si hanno molte ragioni per credere che questo componimento
sia stato scritto nel 1829, nella stagione dei cosiddetti “grandi idilli”,
anche se abbiamo un appunto del 1819, in cui “passero solitario” si trova in
elenco di possibili argomenti di idilli. La collocazione incipitaria è dovuta
al fatto che la poesia presenta un tema tipico delle opere giovanili: il
contrasto tra il reale e ciò che si desidera. Tuttavia, la forma metrica e
stilistica è quella degli idilli pisano-recanatesi dl 1828-30.
Tutta la poesia Il
passero solitario è costruita su una similitudine tra il
comportamento del passero e quello del poeta: come il passero trascorre
solitario la primavera, spandendo il suo canto per la campagna, cosi Leopardi
trascorre, solo, incompreso e sentendosi estraneo nel suo luogo natale, la
giovinezza. Ma il passero non avrà rimpianti, perché ha vissuto secondo natura,
mentre il poeta sente che, se giungerà alla vecchiaia, rimpiangerà le gioie di
cui non ha goduto. Anche la struttura della poesia è simmetrica: la prima
strofa è dedicata al passero e alle sue abitudini di vita, la seconda al poeta,
la cui condizione è assimilabile a quella del passero, mentre la terza svolge
il confronto, opponendo la vecchiaia di entrambi: infatti, se per l’uccellino
la vecchiaia è solo la parte finale della vita che il destino gli ha concesso,
per il poeta, invece, è una “detestata soglia”, fonte di pentimenti e
rimpianti.
Si tratta di una lirica che nasce dalle
più profonde contraddizioni (pessimismo vs gioia di vivere, vecchiaia
vs giovinezza, dolore e rifiuto della vita vs amore per l’esistenza, folla vs
solitudine / (“ tutta vestita a festa/ la gioventù del loco” al v. 32 e, di
contro, “Io solitario” al v. 36). Il tema principale, che è quello della
lacerazione tra la gioia di vivere e l’angoscia generata dalla riflessione
sulla realtà, si articola principalmente proprio attraverso il contrasto tra la
vecchiaia , vissuta come “detestata soglia” (v. 51) ed il rimpianto della
giovinezza, considerata “il tempo migliore” (v. 11) e come tale associata alla
primavera ( “dell’anno e di tua vita il più bel fiore”, v. 16). Al rimpianto si
aggiunge la nostalgia del tempo perduto, di una vita straordinariamente ricca
di emozioni lasciate, non vissute e quindi rimpiante: “ Ogni diletto e
gioco/Indugio in altro tempo” (vv. 38-39).
Leopardi, in questo suo
efficace autoritratto giovanile, non attribuisce la sua infelicità
alla natura o alla società, ma alla sua insicurezza e al suo senso di impotenza
che gli impedivano di rapportarsi con gli altri e di partecipare alle gioie
della vita. La giovinezza non è vista attraverso il filtro del ricordo, come in
altri idilli, ma rivissuta (si noti l’uso dell’indicativo presente) come se
fosse ancora attuale.
Anche in questo componimento sono molte le
immagini “vaghe e indefinite”tanto care a Leopardi, perché permettono
di evocare vastità e lontananze che stimolano l’immaginazione: i complementi di
luogo indeterminati “alla campagna” e “per lo seren”, la “torre antica”
(“l’antico produce l’idea di un tempo indeterminato dove l’anima si perde”
leggiamo nello Zibaldone), il passero “solitario”, la campagna
“rimota”
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l'infinito
L'infinito
L'infinito, composto a Recanati nel
1819, è il primo dei canti (La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La
vita solitaria) cui il poeta diede il nome di idilli.
Nell'immaginare l'infinito, il pensiero del poeta si smarrisce, si perde, ma questo naufragare nell'immensità provoca una sensazione indefinibile di piacere e di dolcezza; percepire l'infinito significa infatti per Leopardi evadere da una realtà circoscritta e limitata, per perdersi nel nulla e dimenticare per qualche istante il dolore della vita.
Nell'immaginare l'infinito, il pensiero del poeta si smarrisce, si perde, ma questo naufragare nell'immensità provoca una sensazione indefinibile di piacere e di dolcezza; percepire l'infinito significa infatti per Leopardi evadere da una realtà circoscritta e limitata, per perdersi nel nulla e dimenticare per qualche istante il dolore della vita.
Sempre
caro mi fu quest'ermo colle1,
e
questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo
orizzonte il guardo esclude2.
Ma3
sedendo e mirando, interminati
spazi
di là da quella, e sovrumani
silenzi,
e profondissima quiete
nel
pensier mi fingo; ove per poco
il
cor non si spaura4. E come5 il vento
odo
stormir tra queste piante, io quello
infinito
silenzio a questa voce
vo
comparando:6 e mi sovvien l'eterno,
e
le morte stagioni, e la presente
e
viva, e il suon di lei.7 Così tra questa
immensità
s'annega il pensier mio:
e
il naufragar m'è dolce in questo mare.8
Schema metrico: endecasillabi sciolti.
1. Sempre... colle: il colle è il monte Tabor, vicino a Recanati;
il colle solitario (ermo) è caro al poeta perché gli consente di isolarsi, di
raccogliersi nei propri pensieri e nella propria immaginazione. L'avverbio
sempre indica una lunga consuetudine.
2. e questa... esclude: che impedisce allo sguardo di
spaziare; anche la siepe, che ostacola la sua vista e gli impedisce di vedere (il
guardo esclude) tanta parte dell'estremo (ultimo) orizzonte, è cara al poeta,
perché gli permette di oltrepassarla con l'immaginazione. La siepe rappresenta
il limite del reale, che suscita il bisogno di evasione e il desiderio di
infinito, che è insopprimibile in ogni essere.
3. ma: il ma avversativo segna il distacco tra lo spazio
reale limitato (il colle e la siepe) e quello infinito cui il poeta accede con
l'immaginazione.
Sedendo e mirando:soffermandomi e contemplando.
Nel pensier mi fingo: con la mente immagin.
4. ove... non si spaura: la visione dell'infinito porta ad
un senso di smarrimento; ove significa "in cui" (riferito a spazi,
silenzi, quiete), ma ha anche un valore consecutivo (al punto che).
5. e come: quando, non appena; la congiunzione segna il
passaggio dalla percezione dell'infinito di spazio a quella dell'infinito di
tempo, e sottolinea quindi il momentaneo recupero, da parte del poeta, del
rapporto con la realtà.
6. il vento... vo comparando: non appena il poeta ode
stormire il vento tra le fronde, si sente riportare alla realtà, e mette subito
in relazione la voce del vento con l'infinito silenzio immaginato negli spazi
sovrumani.
7. e mi sovvien... e il suon di lei: la rapida
progressione delle sensazioni viene sottolineata dalle congiunzioni (E come; e
mi sovvien; e la presente/e viva, e il suon di lei).
8. e il naufragar… mare: l'abbandonarsi, il perdersi nel
mare dell'infinito, in pensieri e immaginazioni così vaste, provoca nell'animo
una sensazione di piacere, di dolcezza. La metafora del naufragio (rafforzata
dall'ossimoro naufragar. .. dolce) rende l'idea dell'annullamento dell'animo
del poeta, ma anche della dolcezza del suo sentirsi riassorbire nel tutto.
sintesi
versi 1-3 Questo colle solitario (ermo) mi fu sempre caro
e (mi fu sempre cara) anche questa siepe (gruppo di piante), che impedisce
(esclude) la vista (il guardo) di una gran (tanta) parte dell'estremo (ultimo)
orizzonte
versi 4-8 Ma sedendo e contemplando (mirando), io riesco
ad immaginare (nel pensier mi fingo) al di là di essa spazi illimitati
(interminati), silenzi inimmaginabili (sovrumani) e una profondissima quiete,
in cui (ove) l'animo quasi (per poco) si smarrisce (si spaura).
versi 8-13 E non appena (come) odo stormire il vento tra
queste piante, metto in relazione (vo comparando) quell'infinito silenzio a
questa voce (del vento): e mi giungono alla mente (mi sovvien) l'idea
dell'eternità (l'eterno), del tempo passato (le morte stagioni) e del tempo
presente (la presente) che ancora vive (e viva), e il rumore della sua attività
(il suon di lei).
versi 13-15 Così il mio pensiero annega in questa immensità,
e mi è dolce naufragare in questo mare infinito.
Solo il primo e l’ultimo verso sono autosufficienti,
possono essere letti indipendentemente da quelli che seguono o precedono.
Ci sono moltissimi enjambement
Ci sono numerose allitterazioni: a
Nel testo c’è continua contrapposizione fra finito e
infinito , reale e immaginario, vicino e lontano, di conseguenza il poeta usa
termini concreti e astratti che meglio
rappresentano l’opposizione.
La poesia ha per tema un’avventura della mente.
Il mare è metafora dell’infinito.
Scrivi il commento alla poesia, il lavoro è già avviato.
La poesia l'infinito, pur essendo stata scritta nel 1819,
quando Giacomo Leopardi aveva soltanto ventun anni, è una delle sue liriche
più complete e perfette; in essa la natura appare come stimolo e occasione di
una profonda riflessione interiore.
In questa poesia pochi particolari, in sé insignificanti,
un colle e una siepe, sono sufficienti per stimolare il poeta a varcare i
limiti della quotidiana realtà e…
Il poeta si trova …
La percezione dello spazio infinito ispira a Leopardi una
sensazione di sgomento…
Il soffio del vento tra il fruscio delle foglie lo
richiama alla realtà, al presente e lo induce a fare un confronto…
Nella percezione dell'infinito il poeta passa da un
momento di paura alla dolcezza del «naufragar»…
dove si dimenticano le miserie e le piccolezze degli
uomini. Questo componimento è il primo di un gruppo che Leopardi pubblicò nel
1825 con il nome di «idilli»; il termine idillio nella tradizione greca
significa «piccola immagine» e rappresenta appunto un quadro di vita, un breve
scritto di argomento per lo più campestre, mentre l'idillio leopardiano è
l'espressione poetica di una sensazione dello spirito, di un'avventura
interiore suscitate da una particolare situazione di contemplazione della
natura.
In esso Leopardi usa il verso con maggior libertà…
il linguaggio…
Quanto alle mie considerazioni personali…
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