L’appello dalla sessione del Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu,
per le vittime di una violenza disumana
 Sfigurata
a vita. La pelle del viso accartocciata. I suoi occhi, salvi
per miracolo, sono lucerne in questa faccia erosa dall’acido. “La faccia è la
nostra identità. Le donne che vengono colpite dall’acido la
perdono”. Amina inizia così il suo racconto.
E’ arrivata dal Bangladesh fino alla sede dell’Onu
di Ginevra, lo scorso 15 settembre. Un viaggio di 24 ore per raccontare la sua
storia al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. E’
una delle vittime degli attacchi con l’acido che
colpiscono centinaia di donne nel suo Paese senza che la comunità
internazionale muova un dito. Amina aveva sedici anni quando è stata colta di
sorpresa da una secchiata di acido: “Era notte, mi recavo nel bagno esterno
della mia casa nella campagna che dista pochi chilometri da Dacca, la
capitale”. Autore di quest’atrocità, un pretendente ferito nel suo
orgoglio perché respinto: “Non volevo sposarlo, per questo ha
reagito così, come molti altri uomini fanno nei confronti delle donne che
rifiutano di obbedirgli”. Secondo la Acid Survivors Foundation,
 associazione che si occupa dal 1999 del caso di
 Amina e delle tante come lei, gli attacchi al vetriolo hanno
 raggiunto quota 146 in
 Bangladesh nel 2009. E l’elenco è ancora maggiore se si
 considerano i casi non denunciati. “Gli attacchi
 non hanno solo luogo in Bangladesh ma colpiscono vittime in altri paesi tra
 cui Afghanistan, Cambogia, Pakistan,
 Uganda“, afferma Munira Rahman,
 Direttrice Esecutiva dell’associazione, “e le cause troppo spesso riguardano la
 proprietà di case o terra (39 per cento), la violenza domestica in genere (31
 percento), il rifiuto matrimoniale femminile (17 per cento).
 Inoltre troppo spesso è la casa il luogo privilegiato dai torturatori”.
 Torturatori, si. Perché anche se l’Assemblea Generale dell’Onu
 ancora non si è ufficialmente pronunciata in merito, “l’attacco
 con l’acido è una forma di tortura che deve essere considerato
 e punito come tale”, sostiene con forza Lois Herman,
 coordinatrice del Network dei Report delle Donne
 delle Nazioni Unite (Wunrn) - che monitora
 costantemente lo stato delle discriminazioni di genere nel mondo. Questa e
 altre organizzazioni come la Lega Internazionale delle Donne per la Pace e la
  Libertà (Wilpf), anch’essa presente con una delegazione
  alla 15° sessione del Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu,
  intendono far pressione sull’Assemblea Generale
  perché si pronunci a favore dell’equiparazione tra gli
  attacchi con l’acido e la tortura e perché la Convenzione
  sull’eliminazione di tutte le forme di violenza sulle donne (1979) sia
  efficace di fatto e non solo sulla carta. Va precisato, poi, che questo tipo
  di attacchi, espressione della più cieca brutalità patriarcale, “non
  dipendono da alcuna religione e provare a giustificarli in base ad una fede è
  pura mistificazione”, ricorda Amina. Insomma: ancora una
  volta il patriarcato sfoga la sua natura più becera su donne colpevoli
  soltanto di affermare con decisione la propria volontà. La testimonianza di
  Amina lascia impietrita la platea accorsa al Consiglio sui Diritti Umani a
  Ginevra. Qualcuno osa chiederle una foto, e lei si presta
  al gioco della rappresentazione per testimoniare la barbarie.
  Lo fa con pudore, accennando un sorriso a chi timidamente le propone uno
  scatto. “Per rendersi conto della tragedia non c’è altro
  modo che vedere”, dice con un sorriso pacato, “bisogna
  denunciare, anche così. Bisogna anzi urlare al mondo che è in atto una guerra
  silenziosa di cui nessuno parla. E bisogna fare rete, abbiamo bisogno di tutti
  i tipi di sostegno”. Perché la violenza sulle donne cessi. Perché non resti
  inosservata. Perché gli uomini la smettano di prendersela con le donne.
  Perché capiscono che farlo non li renderà di certo più machi. Semplicemente
  dei mostri.
 
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