mercoledì 9 ottobre 2013

il cinque maggio.



Parafrasi

Egli non è più. Come immobile,
dopo aver esalato l’ultimo respiro,
rimase il corpo senza vita e senza memoria
privato di uno spirito così grande,
così colpita, stupefatta
la terra alla notizia della sua morte resta immobile,

ammutolita, pensando al momento
della morte dell’uomo mandato dal destino;
non sa quando una uguale
impronta di piede mortale
la sua polvere insanguinata
tornerà a calpestare.

Napoleone nel momento di gloria (sfavillante sul trono)
vide il mio genio poetico ma non parlò;
quando Napoleone con avvicendarsi incessante,
cadde, si risollevò e ricadde definitivamente
al suono di mille voci
(il mio genio) non ha mischiato la sua:

(il mio genio) è vergine da elogi servili
e da insulti vigliacchi,
(il mio genio) si leva ora commosso all’improvvisa
sparizione di una figura così radiosa;:
e innalza alla tomba un canto
che forse resterà immortale.

Dalle Alpi alle Piramidi
dal Manzanarre al Reno
di quell’uomo risoluto l’azione fulminea
seguiva immediatamente la decisione rapida;
la sua azione esplose da Scilla al Tanai,
dall’uno all’altro mare.

Fu una vera gloria? Alle generazioni future
la difficile risposta: noi
ci inchiniamo a Dio,
che ha voluto su di lui
del suo spirito creatore
imprimere un segno più grande.

La tempestosa e trepidante
gioia di un grandioso progetto,
l’ansia di un animo che indomito
serve, pensando a comandare:
e lo raggiunge, e ottiene un premio
ch’era follia sperare di ottenere;

tutto egli provò: la gloria
più grande dopo il pericolo,
la fuga  e la vittoria,
la reggia (il potere) e il triste esilio:
due volte è stato sconfitto
due volte ha raggiunto il trionfo.

Egli si presentò alla storia: due secoli,
contrapposti,
si rivolsero a lui rispettosamente,
in attesa del loro destino;
egli fece silenzio, e come un arbitro
sedette in mezzo a loro.

E scomparve, e i giorni nell’ozio
concluse in un’isola così piccola,
bersaglio di un’invidia immensa
e di un profondo rispetto,
di odio inestinguibile
e di amore invincibile.

Come sul capo del naufrago
l’onda incombe vorticosa e grava,
l’onda su cui lo sguardo (la vista) dello sventurato,
poco prima scorreva alto e proteso, ad avvistare
invano lontani approdi;

così su quell’anima il cumulo
dei ricordi si abbattè!
Oh quante volte ai posteri
cominciò a narrare le sue memorie,
e sulle pagine eterne (anche nel senso di mai finite)
cadde la sua mano stanca!

Oh quante volte, al silenzioso
concludersi di un giorno trascorso nell’inerzia,
abbassati gli occhi brillanti,
le braccia conserti al petto,
rimase, e dei giorni passati
lo assalì il ricordo!

E ripensò agli accampamenti
spostati continuamente, e alle trincee nemiche colpite,
al muoversi fulmineo dei plotoni,
all’incalzare ondeggiante della cavalleria,
agli ordini concitati,
alla loro rapida esecuzione.

Ahi! Forse di fronte a tanto dolore
si smarrì il suo animo affannato,
e perse ogni speranza; ma provvidenziale
venne una mano dal cielo,
e in un’atmosfera più serena
pietosa lo trasportò;

e lo guidò per i fioriti
sentieri della speranza,
verso l’eternità, al premio
che supera ogni desiderio umano
dov’è silenzio e tenebre
la gloria del passato.

Immortale! Benefica
Fede abituata ai trionfi!
Scrivi anche questo trionfo, gioisci;
perché uomo più potente
mai si è chinato di fronte alla croce.

Tu Fede dalle spoglie mortali stanche
allontana ogni parola di condanna e di odio:
Dio che abbatte e resuscita,
che affanna e che consola con la misericordia
sul letto solitario
siede accanto a Napoleone,

mercoledì 2 ottobre 2013

il sabato del villaggio




IL SABATO DEL VILLAGGIO Giacomo Leopardi
   

      La donzelletta1 vien dalla campagna
      in sul calar del sole2,
col suo fascio dell'erba; e reca3 in mano
un mazzolin di rose e viole,
onde, siccome suole4,
ornare ella si appresta
dimani, al dí di festa5, il petto e il crine6.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno7;
e novellando vien del suo buon tempo8,
quando ai dí della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea9 danzar la sera intra di quei10
ch'ebbe compagni dell'età piú bella.
Già tutta l'aria imbruna11,
torna azzurro il sereno12, e tornan l'ombre
giú da' colli e da' tetti13,
al biancheggiar della recente luna14.
Or la squilla dà segno15
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta16.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta17,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore18;
e intanto riede alla sua parca mensa19,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo riposo20.

Poi quando intorno è spenta ogni altra                       
e tutto l'altro tace22,                          [face21
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol23, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna24,
e s'affretta, e s'adopra
di  fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba25.

Questo26 di sette è il più gradito giorno,
pien di speme27 e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore28, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno29.

Garzoncello scherzoso30,
cotesta età fiorita31
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita32.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta33.
Altro dirti non vo'34; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave35.








1:la fanciulla
2: all’ora del tramonto
3: porta
4:con il quale, nel modo in cui è solita(suole) fare
5: ella si prepara a ornare domani, nel giorno di festa
6: i capelli
7: rivolta a occidente, verso il tramonto
8: raccontando (novellando) del suo tempo felice, la giovinezza
9: era solita
10: insieme a quelli
11: si fa scura
12: il cielo torna ad essere azzurro
13: e le ombre, scomparse dopo il tramonto, riappaiono dai colli e dai tetti
14: sotto la luce della luna appena sorta
15; ora la campana (squilla) annuncia
16: si consola
17: in gruppo
18: un chiasso gioioso
19: ritorna (riede) alla sua povera cena
20: pensa fra sé e sé alla giornata seguente in cui si riposerà
21: luce
22: e ogni cosa è immersa nel silenzio
23: del falegname
24: alla luce del lume
25: si sforza (s’adopra) di terminare il lavoro (l’opra) prima che ritorni la luce del giorno
26: il sabato
27: speranza
28: domani le ore porteranno tristezza e noia
29: ciascuno tornerà con il pensiero al lavoro abituale
30: fanciulletto allegro
31: la fanciullezza
32: anticipa l’età adulta
33: la giovinezza è una condizione dolce e gioiosa
34: non voglio dirti altro
35: ma non ti dispiacere (non ti sia grave) se la festa della tua vita tarderà ad arrivare

ESERCIZI
1.      In quale luogo e in quale momento della settimana si svolge la scena descritta da Leopardi?
2.      Riassumi brevemente le azioni compiute dai diversi personaggi presenti nel testo spiegando quale elemento li accomuna.
Donzelletta…
Vecchierella…
Zappatore…
Falegname…
Elemento in comune…
3.      Quali suoni e rumori rendono più ricca e vivace la descrizione che il poeta fa del villaggio?
4.      Nell’ultima strofa della poesia Leopardi si rivolge a un interlocutore immaginario: chi è? Che cosa rappresenta?
5.      A quali elementi dell’esistenza umana corrispondono simbolicamente il sabato e la domenica?
6.      La poesia si divide in una parte descrittiva  e in una riflessiva. Quali versi sono dedicati alla descrizione e quali alla riflessione?
7.      Leggendo questa poesia ti sarai accorto della sua grande musicalità: questa è dovuta, oltre che a un uso sapiente dei versi endecasillabi e settenari, all’uso ricorrente di assonanze e allitterazioni. Individuane alcune.
8.      Spiega la metafora presente nell’espressione “età fiorita”.
9.      Confronta  Il sabato del villaggio con Il passero solitario e indica se le affermazioni che seguono sono vere [V] o false [F]
  • Entrambi i testi sono ambientati a Recanati.
  • In entrambi Leopardi contrappone la giovinezza alla vecchiaia.
  • Le due poesie esprimono una diversa concezione dell’infelicità umana.
  • Solo nel Sabato del villaggio viene descritta la vita degli abitanti di Recanati.
10.  Pensi anche tu, come il poeta, che il sabato sia “il più gradito giorno” e che la domenica porti con sé “tristezza e noia”, o hai un’opinione diversa? Spiega il tuo punto di vista descrivendo come trascorri di solito queste due giornate.


La fanciulla (la donzelletta – diminutivo arcaico) ritorna dalla campagna [torna dal lavoro nei campi] al tramontar del sole (in sul = verso il), portando un fascio d’erba e tiene in mano un mazzolino di rose e di viole (ha l'erba per le bestie, come tutti i giorni, ma in mano ha viole e rose come segno della festa), delle quali (onde), come è solita (suole), si prepara a ornare l'indomani, giorno di festa, il petto e i capelli (crine).
[Alla baldanza giovanile della donzelletta viene contrapposta la quiete della vecchierella]
Intanto sulle scale (i gradini dell'uscio di casa) siede con le vicine la vecchierella a filare, rivolta là (
incontro là) dove tramonta il sole e racconta (novellando vien = raccontando con tono di fiaba)  della sua giovinezza (suo buon tempo - metafora), quando anch’ella si preparava la domenica e ancora giovane e bella era solita (solea, torna l'idea della cara abitudine) andare a ballare con coloro che erano giovani come lei (ebbe compagni nell’età  più bella – “età più bella” è metafora).
Ormai (
già, esprime il rapido volgere della sera) inizia a scurire (l’aria imbruna), il cielo (il sereno) torna azzurro (metonimia), e al biancheggiare della luna appena sorta (recente luna) ritornano giù dai colli e dalle case le ombre (dopo che erano sparite al tramontare del sole tornano a disegnarsi per terra). Ora la campana (la squilla) dà segno della festa che sta arrivando (metonimia); e a quel suono, si direbbe (diresti, con valore impersonale) che il cuore si consola (si riconforta: per un momento dimentica i suoi mali).
I fanciulli (sono i primi a gioire della festa tanto attesa) gridando in gruppo (
in frotta) sulla piazzola, e saltando di qua e di là fanno un rumore allegro (lieto – perché suscita gioia); e intanto il contadino torna (riede forma arcaica che suggerisce l’impressione del camminare lento e cadenzato di chi è stanco) alla sua  povera casa (parca mensa), fischiettando (in segno di letizia lui pure) e fra sé e sé (seco) pensa al giorno del suo riposo.

Poi quando intorno tutti i lumi (face - latinismo) sono spenti e tutto è silenzio (tace – face/tace è rima baciata), senti (odi...odi, anafora) il martello picchiare, senti la sega del falegname, che  sveglio nella sua bottega chiusa, alla luce della lucerna, si affretta e si adopera per finire il lavoro (fornir l'opra) prima della luce dell’alba.

Questo è il giorno [il sabato, che si è appena concluso] più gradito della settimana (di sette), pieno di speranza (speme) e di gioia: domani le ore porteranno tristezza e noia, e ognuno tornerà col pensiero (in suo pensier farà ritorno) alla fatica di tutti i giorni (il travaglio usato).
Ragazzo (Garzoncello, l'uso del diminutivo indica affetto) allegro/scanzonato (scherzoso), questa giovinezza (età fiorita - metafora) è come un giorno pieno di felicità (similitudine), luminoso, sereno, che precede la maturità (festa di tua vita - metafora, dunque la fanciullezza è simile al sabato, che promette gioia, la maturità alla domenica, in cui ogni illusione svanisce).
Godi o fanciullo [quanto puoi] della giovinezza; questa è una condizione (
stato) beata, un’età gioiosa (stagion lieta - metafora).
Non voglio dirti altro; ma non ti pesi che la tua festa tardi ancora a venire [cioè non aver fretta di crescere].
Commento: : Il sabato del villaggio, scritto da Giacomo Leopardi nel 1829 a Recanati, fa parte dei "grandi idilli" e, come tale, si evidenziano da subito in tutto il componimento i temi della rimembranza e dell'evanescenza della giovinezza. Il tema predominante del componimento è rievocare "l'età fiorita", tema che peraltro si ritrova in altri idilli come in A Silvia, dove la ragazza è personificazione stessa della gioventù che sfiorisce. L'autore invita a non aspettarsi felicità dal futuro, perché come la domenica deluderà l'attesa del sabato, così la vita deluderà i sogni della giovinezza. Leopardi, quindi, ritiene di non doversi aspettare niente, in modo da non essere mai delusi.
Il poeta in questa lirica parla della vita che si conduce di sabato nel suo villaggio. Si può suddividere la poesia in due parti:
  1. prima parte : descrittiva in cui regna l'allegria per i giorni di festa e successivamente il silenzio rotto dagli strumenti del falegname. I primi versi, infatti, oppongono la gioia ed il giorno alla serenità del sonno;
  2. parte finale: riflessiva dove il poeta guarda al domani quando la quotidianità infonderà il tedio e riflette sulla fugacità della giovinezza.
Negli ultimi versi il poeta oppone l'oggi spensierato, metafora della giovinezza, al domani, simbolo della noia e della vecchiaia.
Forma metrica: Canzone libera. Settenari e endecasillabi si alternano e vi sono due versi non rimati (41 e 43).
Parallelamente alle tematiche il ritmo nei primi versi è più incalzante, scorrevole e spensierato, mentre diventa in chiusura, più pacato ed incline alla meditazione. Il ritmo agile e mosso è reso efficacemente attraverso l’utilizzo dei settenari, mentre il ritmo più lento è reso dall’endecasillabo.
Sono presenti numerose figure retoriche, oltre a quelle evidenziate nel testo a fronte della poesia, vi sono: Litote: "altro dirti non vo'" con la quale Leopardi esprime l'intenzione di non demoralizzare i giovani. Climax: I personaggi realizzano un climax prima crescente dopo decrescente: la donzelletta (gioventù) - la vecchierella (vecchiaia) - lo zappatore (età matura) - il garzoncello (gioventù).
Si possono notare inoltre, nella prima parte della poesia, allitterazioni con doppie (donzelletta, mazzolin, vecchierella, novellando, sulla, bella, colli...) o con dittonghi (giorno, chiaro, ciascuno, gioia, stagion, pien, pensier, lieta), o con ripetizione degli stessi suoni (in sul calar del sole; siccome suole).
L'uso dei diminutivi (donzelletta, vecchierella, garzoncello) denota la tenerezza del poeta verso i suoi personaggi, in particolare per gli adolescenti.


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il passero solitario



Analisi del testo: “Il passero solitario” di Giacomo Leopardi


D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core,
E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.


Parafrasi
Dalla cima dell’antica torre, passerotto solitario, continui a cantare rivolto verso la campagna, finchè non termina la giornata; e si diffonde il suono attraverso questa vallata. Intorno, nell’aria brilla la primavera ed è nel pieno rigoglio nei campi, a tal punto che ad ammirarla il cuore si commuove. Senti greggi belare, mandrie di buoi muggire; gli altri uccelli felici, tutti insieme a gara fanno mille giri nel cielo libero, festeggiando anch’essi il periodo migliore della loro vita: tu, invece, pensieroso in disparte osservi tutto ciò che ti circonda; non ti curi dei compagni, dei voli, di manifestare allegria, eviti i divertimenti; canti e così passi l’epoca migliore dell’anno e della tua vita.
Ahimè, quanto è simile al mio il tuo modo di vivere! Io non cerco, non so come sia possibile, il divertimento e il piacere, dolci compagni della giovane età, né te, amore, compagno della giovinezza, rimpianto amaro dei giorni dell’età matura; anzi quasi scappo lontano da loro; quasi solitario ed estraneo al luogo in cui io sono nato, passo la giovinezza, l’epoca più bella della mia vita. Si è soliti festeggiare al nostro paese questo giorno che ormai lascia il posto alla sera. Senti attraverso il cielo sereno un suono di campana, senti spesso uno sparo di armi da fuoco a salve, che rimbomba lontano di casa in casa. La gioventù del luogo, tutta vestita a festa, lascia le case e si sparge per le strade; e guarda ed è guardata, e si rallegra nel cuore. Io solitario, uscendo diretto verso questa parte remota della campagna, rinvio ad un altro momento ogni piacere e ogni gioco: e intanto il sole, che, dopo un giorno sereno, sparisce nascendosi dietro monti lontani e sembra che dica che la giovinezza felice se ne sta andando, mi ferisce lo sguardo che si estende nell’aria soleggiata.
Tu, uccellino solitario, quando sarai giunto verso la fine della vita che il destino ti darà, certamente non ti pentirai del tuo modo di vivere; perché è frutto di una disposizione naturale ogni vostro desiderio. A me, invece, se non otterrò di evitare l’odiosa soglia della vecchiaia, quando questi occhi resteranno insensibili ai sentimenti altrui e per loro il mondo sarà vuoto, e il giorno futuro sembrerà più noioso e cupo di quello presente, che ne sembrerà di questo desiderio? Che me ne parrà di questi miei anni? Che cosa di me stesso? Ahimè, mi pentirò e mi volgerò spesso indietro, ma senza possibilità di consolazione.

Figure retoriche

  • Allitterazioni: della “c”: “campagna / cantando” (vv. 2-3); “certo, costume” (v. 45) della “l”: “della / alla / valle, li, esulta”; “augelli / lo libero ciel, mille” (vv. 9-10); “lontan di villa in villa” (v. 31); “solingo augellin” (v. 45); della “r”: “belar, muggire, armenti” (v. 8); “romito e strano” (v. 24); “mira, mirata, cor” (v. 35) “tonar, ferree” (v. 30); della “g”: “greggi, muggire” (v. 8); “german di giovinezza” (v. 20) della “s”: “pensoso in disparte / schivi gli spassi / e così trapassi” (vv. 12-15); “sereno, suon, squilla” (v. 29); della “v”: “vostra vaghezza / vecchiezza”(vv. 49-50); della “m”: “pentirommi / ma volgerommi” (vv. 58-59); della “a” ricorrente in tutta la poesia: “campagna / cantando vai… erra l’armonia questa valle….mira ed è mirata e in cor s’allegra….rimota parte alla campagnaaria aprica…parrà di tal voglia”, ecc;
  • Anafora: “che parria di tal voglia? / “che di questi anni miei? “che di me stesso?” (vv. 56-57);
  • Onomatopea: “rimbomba” (v. 31);
  • Chiasmi: “brilla nell’aria e per li campi esulta”; “odi greggi belar, muggire armenti” (v. 8);
  • Metafore: “more il giorno” (v. 2); “di tua vita il più bel fiore” (v. 16); “a sera / del viver” (vv. 45-46); “di vecchiezza / la detestata soglia” (vv. 50-51);
  • Metonimia: “la gioventù del loco” (v. 33) (= i giovani);
  • Anastrofi: “dell’anno e di tua vita il più bel fiore” (v. 16); “del viver mio la primavera” (v. 26); “di natura è frutto” (v. 48); “di vecchiezza / la detestata soglia” (vv. 50-51);
  • Anafore: “quasi fuggo lontano / quasi romito e strano” (vv. 23-24); “odi per lo sereno…/ odi spesso un tonar” (vv. 29-30);
  • Apostrofi: “passero solitario” (v. 2); “e te, german di giovinezza, amore” (v. 20); “solingo augellin” (v. 45);
  • Enjambements: “alla campagna / cantando vai” (vv. 1-2); “primavera dintorno / brilla nell’aria” (vv. 5-6); “a gara insieme / per lo libero ciel fan mille giri” (vv. 9-10); “trapassi / dell’anno e di tua vita il più bel fiore” (vv. 15-16); “somiglia / al tuo costume il mio” (vv. 17-18); “in questa / rimota parte” (vv. 36-37); “ogni diletto e gioco / indugio” (vv. 38-39); “il guardo / steso” (vv. 39-40); “di natura è frutto / ogni vostra vaghezza” (vv. 48-49); “di vecchiezza / la detestata soglia” (vv. 50-51); “soglia / evitar non impetro” (vv. 51-52).

Commento

Anche se, nell’edizione dei Canti del 1835, è collocato prima dell’Infinito, come prologo agli idilli, si hanno molte ragioni per credere che questo componimento sia stato scritto nel 1829, nella stagione dei cosiddetti “grandi idilli”, anche se abbiamo un appunto del 1819, in cui “passero solitario” si trova in elenco di possibili argomenti di idilli. La collocazione incipitaria è dovuta al fatto che la poesia presenta un tema tipico delle opere giovanili: il contrasto tra il reale e ciò che si desidera. Tuttavia, la forma metrica e stilistica è quella degli idilli pisano-recanatesi dl 1828-30.
Tutta la poesia Il passero solitario è costruita su una similitudine tra il comportamento del passero e quello del poeta: come il passero trascorre solitario la primavera, spandendo il suo canto per la campagna, cosi Leopardi trascorre, solo, incompreso e sentendosi estraneo nel suo luogo natale, la giovinezza. Ma il passero non avrà rimpianti, perché ha vissuto secondo natura, mentre il poeta sente che, se giungerà alla vecchiaia, rimpiangerà le gioie di cui non ha goduto. Anche la struttura della poesia è simmetrica: la prima strofa è dedicata al passero e alle sue abitudini di vita, la seconda al poeta, la cui condizione è assimilabile a quella del passero, mentre la terza svolge il confronto, opponendo la vecchiaia di entrambi: infatti, se per l’uccellino la vecchiaia è solo la parte finale della vita che il destino gli ha concesso, per il poeta, invece, è una “detestata soglia”, fonte di pentimenti e rimpianti.
Si tratta di una lirica che nasce dalle più profonde contraddizioni (pessimismo vs gioia di vivere, vecchiaia vs giovinezza, dolore e rifiuto della vita vs amore per l’esistenza, folla vs solitudine / (“ tutta vestita a festa/ la gioventù del loco” al v. 32 e, di contro, “Io solitario” al v. 36). Il tema principale, che è quello della lacerazione tra la gioia di vivere e l’angoscia generata dalla riflessione sulla realtà, si articola principalmente proprio attraverso il contrasto tra la vecchiaia , vissuta come “detestata soglia” (v. 51) ed il rimpianto della giovinezza, considerata “il tempo migliore” (v. 11) e come tale associata alla primavera ( “dell’anno e di tua vita il più bel fiore”, v. 16). Al rimpianto si aggiunge la nostalgia del tempo perduto, di una vita straordinariamente ricca di emozioni lasciate, non vissute e quindi rimpiante: “ Ogni diletto e gioco/Indugio in altro tempo” (vv. 38-39).
Leopardi, in questo suo efficace autoritratto giovanile, non attribuisce la sua infelicità alla natura o alla società, ma alla sua insicurezza e al suo senso di impotenza che gli impedivano di rapportarsi con gli altri e di partecipare alle gioie della vita. La giovinezza non è vista attraverso il filtro del ricordo, come in altri idilli, ma rivissuta (si noti l’uso dell’indicativo presente) come se fosse ancora attuale.
Anche in questo componimento sono molte le immagini “vaghe e indefinite”tanto care a Leopardi, perché permettono di evocare vastità e lontananze che stimolano l’immaginazione: i complementi di luogo indeterminati “alla campagna” e “per lo seren”, la “torre antica” (“l’antico produce l’idea di un tempo indeterminato dove l’anima si perde” leggiamo nello Zibaldone), il passero “solitario”, la campagna “rimota”



l'infinito



L'infinito

L'infinito, composto a Recanati nel 1819, è il primo dei canti (La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria) cui il poeta diede il nome di idilli.
Nell'immaginare l'infinito, il pensiero del poeta si smarrisce, si perde, ma questo naufragare nell'immensità provoca una sensazione indefinibile di piacere e di dolcezza;        percepire l'infinito significa infatti per Leopardi evadere da una realtà circoscritta e limitata, per perdersi nel nulla e dimenticare per qualche istante il dolore della vita
.



Sempre caro mi fu quest'ermo colle1,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude2.
Ma3  sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura4. E come5 il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando:6 e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei.7 Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.8

Schema metrico: endecasillabi sciolti.


1. Sempre... colle: il colle è il monte Tabor, vicino a Re­canati; il colle solitario (ermo) è caro al poeta perché gli consente di isolarsi, di raccogliersi nei propri pensieri e nella propria immaginazione. L'avverbio sempre indica una lunga consuetudine.
2. e questa... esclude: che impedisce allo sguardo di spaziare; anche la siepe, che ostacola la sua vista e gli impedisce di vedere (il guardo esclude) tanta parte dell'estremo (ultimo) orizzonte, è cara al poe­ta, perché gli permette di oltrepassarla con l'immagina­zione. La siepe rappresenta il limite del reale, che susci­ta il bisogno di evasione e il desiderio di infinito, che è in­sopprimibile in ogni essere.
3. ma: il ma avversativo segna il distacco tra lo spazio reale limitato (il colle e la siepe) e quello infinito cui il poe­ta accede con l'immaginazione.
Sedendo e mirando:soffermandomi e contemplando.
Nel pensier mi fingo: con la mente immagin.
4. ove... non si spaura: la visione dell'infinito porta ad un senso di smarrimento; ove significa "in cui" (riferito a spazi, silenzi, quiete), ma ha anche un valore consecutivo (al punto che).
5. e come: quando, non appena; la congiunzione segna il passaggio dalla percezione dell'infinito di spazio a quel­la dell'infinito di tempo, e sottolinea quindi il momentaneo recupero, da parte del poeta, del rapporto con la realtà.
6. il vento... vo comparando: non appena il poeta ode stormire il vento tra le fronde, si sente riportare alla realtà, e mette subito in relazione la voce del vento con l'infinito silenzio immaginato negli spazi sovrumani.
7. e mi sovvien... e il suon di lei: la rapida progressione delle sensazioni viene sottolineata dalle congiunzioni (E come; e mi sovvien; e la presente/e viva, e il suon di lei).
8. e il naufragar… mare: l'abbandonarsi, il perdersi nel mare dell'infinito, in pensieri e immaginazioni così vaste, provoca nell'animo una sensazione di piacere, di dolcez­za. La metafora del naufragio (rafforzata dall'ossimoro nau­fragar. .. dolce) rende l'idea dell'annullamento dell'animo del poeta, ma anche della dolcezza del suo sentirsi rias­sorbire nel tutto.





 sintesi
versi 1-3 Questo colle solitario (ermo) mi fu sempre caro e (mi fu sempre cara) anche questa siepe (grup­po di piante), che impedisce (esclude) la vista (il guar­do) di una gran (tanta) parte dell'estremo (ultimo) oriz­zonte
versi 4-8 Ma sedendo e contemplando (mirando), io rie­sco ad immaginare (nel pensier mi fingo) al di là di essa spazi illimitati (interminati), silenzi inimmaginabili (sovru­mani) e una profondissima quiete, in cui (ove) l'animo qua­si (per poco) si smarrisce (si spaura).
versi 8-13 E non appena (come) odo stormire il vento tra queste piante, metto in relazione (vo comparando) quell'infini­to silenzio a questa voce (del vento): e mi giungono alla men­te (mi sovvien) l'idea dell'eternità (l'eterno), del tempo passa­to (le morte stagioni) e del tempo presente (la presente) che ancora vive (e viva), e il rumore della sua attività (il suon di lei).
versi 13-15 Così il mio pensiero annega in questa im­mensità, e mi è dolce naufragare in questo mare infinito.

Solo il primo e l’ultimo verso sono autosufficienti, possono essere letti indipendentemente da quelli che seguono o precedono.
Ci sono moltissimi enjambement
Ci sono numerose allitterazioni: a

Nel testo c’è continua contrapposizione fra finito e infinito , reale e immaginario, vicino e lontano, di conseguenza il poeta usa termini concreti e astratti che  meglio rappresentano l’opposizione.
La poesia ha per tema un’avventura della mente.

Il mare è metafora dell’infinito.








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La poesia l'infinito, pur essendo stata scritta nel 1819, quando Giacomo Leo­pardi aveva soltanto ventun anni, è una delle sue liriche più complete e perfette; in essa la natura appare come stimolo e occasione di una profonda riflessione in­teriore.
In questa poesia pochi particolari, in sé insignificanti, un colle e una siepe, sono sufficienti per stimolare il poeta a varcare i limiti della quotidiana realtà e…
Il poeta si trova …
La percezione dello spazio infinito ispira a Leopardi una sensazione di sgomento…
Il soffio del vento tra il fruscio delle foglie lo richiama alla realtà, al presente e lo induce a fare un confronto…       
Nella percezione dell'infinito il poeta passa da un momento di paura alla dolcezza del «naufragar»…          
dove si dimenticano le miserie e le piccolezze degli uomini. Questo componimento è il primo di un gruppo che Leopardi pubblicò nel 1825 con il nome di «idilli»; il termine idillio nella tradizione greca significa «piccola immagine» e rappresenta appunto un quadro di vita, un breve scritto di argomento per lo più campestre, mentre l'idillio leopardiano è l'espressione poe­tica di una sensazione dello spirito, di un'avventura interiore suscitate da una particolare situazione di contemplazione della natura.
In esso Leopardi usa il verso con maggior libertà…         
il linguaggio…   
Quanto alle mie considerazioni personali…          

epica cavalleresca











figure retoriche



Metafora

metafora Figura retorica che risulta da un processo psichico e linguistico attraverso cui, dopo aver mentalmente associato due realtà differenti sulla base di un particolare sentito come identico, si sostituisce la denominazione dell’una con quella dell’altra. È un procedimento di trasposizione simbolica di immagini; una similitudine abbreviata in cui il rapporto tra due cose o idee è stabilito direttamente senza la mediazione del ‘come’ (nella m. l’ondeggiare delle spighe, ondeggiare sta a mare come movimento delle spighe sta a campo di grano). A seconda di fattori quali la lingua, la cultura, la distanza concettuale o fisica fra le realtà associate, il tipo di somiglianza individuato, la m. risulterà più o meno nuova ed efficace. A un estremo si hanno le catacresi (la gamba del tavolo, il collo della bottiglia e simili), in cui la m. si sviluppa come termine proprio di una realtà altrimenti non denominata; all’altro estremo si ha uno sfruttamento intenso, di tipo poetico (portami il girasole impazzito di luce, Montale); nel mezzo si collocano m. più o meno istituzionalizzate come gli anni verdi, il timone dello Stato, il ruggire dei motori ecc.
La m. svolge funzioni complesse: come meccanismo di arricchimento ed evoluzione della lingua, come mezzo efficace di espressione, come strumento conoscitivo di realtà nuove o colte da nuovi punti di vista (m. scientifiche, macchie solari, buco nero ecc.).

 

Metonimia

Metonimia Figura retorica che risulta da un processo psichico e linguistico attraverso cui, dopo avere mentalmente associato due realtà differenti ma discendenti o contigue logicamente o fisicamente, si sostituisce la denominazione dell’una a quella dell’altra. Costituiscono relazioni di contiguità i rapporti causa-effetto (sotto la specie autore-opera, leggere Orazio, cioè le opere scritte da Orazio), contenente-contenuto (bere un bicchiere), qualità-realtà caratterizzata da tale qualità (punire la colpa e premiare il merito, cioè punire i colpevoli e premiare i meritevoli); simbolo-fenomeno (il discorso della corona, cioè il discorso del re o della regina), materia-realtà composta di tale materia (un concerto di ottoni, strumenti fatti d’ottone). Si distingue tra m. in cui le realtà associate hanno una relazione di tipo qualitativo e sineddoche, in cui la relazione è di tipo quantitativo. Benché spesso associata alla metafora, la metonimia (la parola si pronuncia con entrambe le accentazioni: metonimía o metonímia) se ne distingue perché si basa su un rapporto di scambio tra diverse categorie e non, come la prima, su un rapporto di somiglianza. In questo senso essa è un tropo in quanto sovvertirebbe le attese del contesto in cui viene inserita. Il sovvertimento, a differenza di un altro tropo con cui sovente viene collegata e confusa (la sineddoche), avviene in base alle relazioni causa – effetto e contenente – contenuto e attraverso molte altre inferenze possibili collegate alle prime. Ad es., in comprare una Fiat e bere una bottiglia si sostituisce nel primo caso il nome del produttore (Fiat, causa) col nome del prodotto lasciato implicito (auto, effetto) e nel secondo il nome del contenuto (liquido) col nome del contenente (bottiglia).

 

Sineddoche

Sineddoche Figura retorica che risulta da un processo psichico e linguistico attraverso cui, dopo avere mentalmente associato due realtà differenti ma dipendenti o contigue logicamente o fisicamente, si sostituisce la denominazione dell’una a quella dell’altra. La relazione tra i due termini coinvolge aspetti quantitativi, cioè i rapporti parte-tutto (una vela per la barca), singolare-plurale (lo straniero per gli stranieri), genere-specie (i mortali per gli uomini), materia prima-oggetto prodotto (un bronzo per una scultura in bronzo).

 

Sinestesia

sinestesia linguistica Nel linguaggio della stilistica e della semantica, particolare tipo di metafora per cui si uniscono in stretto rapporto due parole che si riferiscono a sfere sensoriali diverse (silenzio verde, Carducci; colore squillante, voce calda);