giovedì 4 ottobre 2012

dal latino al volgare




La lingua italiana deriva dal latino volgare. Devi sapere, infatti, che la lingua latina presentava anticamente due forme: una forma lette­raria o scritta (latino letterario), usata dai dotti e dalle persone di condizione più elevata; e una forma volgare o parlata (latino regionale o vol­gare), usata dal volgo, ossia dal popolo e dalle persone meno colte. Ai tempi del suo massimo splendore Roma aveva unificato il suo immenso impero sia da un punto di vista politico-giuridico che lin­guistico: in una parola aveva imposto ai popoli conquistati le sue leggi e la sua lingua. Ma la lingua che i coloni e i soldati romani tra­sferivano nelle nuove terre non era di certo il latino letterario, ben­sì quello volgare, cosicché su tutto il territorio dell'impero, se da un lato era noto il latino letterario, usato per le più alte necessità della vita politica e culturale, dall'altro fioriva il latino volgare che logica­mente, a contatto con le lingue originali dei popoli conquistati, andò subendo inevitabili trasformazioni o alterazioni.
La lingua attuale deriva dall'evoluzione del latino parlato attraverso i tempi, arricchito di termini introdotti anche da popoli invasori (Goti, Longobardi, Franchi, Arabi). Sono nate così le lingue neolatine ( nuove dal latino) o romanze (romanice loqui parlare romano). L'italiano è una delle lingue neolatine o romanze così come il francese, lo spagnolo, il portoghese, il rumeno. Quando l'Impero romano cadde (476 d.C.), anche la lingua latina si suddivise in tante lingue diverse: in Italia cominciò a formarsi una nuova parlata, detta volgare perché utiliz­zata dal popolo (vulgus), diversa in ogni regione, mentre il latino rimase la lingua ufficiale delle persone colte e dell'espressione letteraria e giuridica almeno fino al XIII secolo. I primi documenti di queste nuove lingue risalgono all'IX e X secolo.

In Italia, fin dal IX secolo, abbiamo esempi di documenti scritti in una lingua che non è più latina, ma che ancora in qualche modo ri­corda le forme del latino.

Il più antico documento in tal senso è il seguente indovinello con­servato nella Biblioteca Capitolare di Verona, che risale a un periodo collocabile tra l’VIII e il IX secolo.
Se pareba boves,          Spingeva innanzi i buoi (= le dita)  alba pratalia araba,       arava bianchi prati (= la carta) albo versorio teneba, teneva un bianco aratro (= la penna) negro semen seminaba seminava nero seme. (= l'inchiostro)
Questo «Indovinello Veronese» allusivo all'atto dello scrivere è una chiara testimonianza di come la lingua latina stia per trasfor­marsi in lingua volgare. Ad esempio, i verbi latini parebat, arabat, tenebat, seminabat nella lingua volgare si sono trasformati in pare­ba, araba, teneba, seminaba. Nel testo sono presenti termini latini e altri volgari. I termini latini sono concentrati nelle ultime due righe. I termini volgari sono: pareba, araba, teneba, seminaba, in cui si è avuta la caduta della t finale; negro derivato dal latino nigrum(nero), in cui si è avuta la caduta della desi­nenza -um; albo derivato dal latino album (bianco) in cui si è avuto un cam­biamento di vocale.

Il primo documento però in cui appare chiaramente la contrapposi­zione del volgare al latino e quindi la differenza delle due lingue è il Placito di Capua  o Placito Cassinense del 960. Si tratta di una sentenza giudiziaria rela­tiva a una contesa sorta per il possesso di alcune terre fra il mona­stero di Montecassino e un certo Rodelgrimo di Aquino. Il giudice Archisi nel suo verbale, redatto come d'uso in latino, riporta la formula pro­nunciata dai testimoni per confermare il possesso trentennale di una delle due parti. Tale formula, trascritta nella lingua parlata dai testimoni, ossia nella lingua volgare, è la seguente:

Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.
(So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, le pos­sedette per trent'anni la parte, ossia il monastero, di San Benedetto.)
Dall'esame della frase è facile constatare che la lingua usata, seppur mantenga qualche traccia di latino (infatti sao deriva da scio (so); fini da fines, possette da possedit; sancti Benedicti, poi, è un genitivo lati­no; ko è volgare poiché in latino la congiunzione che non esiste; kelle è volgare, significa quelle -in latino si diceva illae- ), è nettamente “volgare”. Siamo dunque in presenza del primo documento in volgare italiano. I primi scritti in volgare nascono quindi da esigenze pratiche (testi giuridici) o sono trascrizioni di testi popolari (scongiuri, indovinelli, ecc.). tuttavia fino al XIII secolo il volgare rimane sostanzialmente una lingua orale.

mercoledì 3 ottobre 2012

DOPO IL MEDIOEVO L’EROE SI TRASFORMA





L’eroe dell’epica medioevale è il cavaliere “senza macchia e senza paura”, che combatte in difesa della fede cristiana, della patria, della giustizia. I poemi medioevali rispecchiano senz’altro la realtà sociale e culturale che li ha creati, centrata sulla figura del cavaliere considerato un campione della fede e un difensore delle cristianità contro gli infedeli.
Dopo il periodo medievale, l’ideale cavalleresco sopravvisse, ma fu lentamente svuotato del suo valore fino a ridursi, nelle corti rinascimentali, a pura esteriorità. Nel 1400-1500 con l’affermazione della civiltà umanistica e rinascimentale, la figura del cavaliere si trasforma. Egli ora, nei poemi epici, non viene più rappresentato come l’eroe per eccellenza, il depositario di tutte le virtù, bensì come un uomo, con le  debolezze, le passioni tipiche degli altri uomini. D’altra parte tale trasformazione riflette la nuova realtà e mentalità del Rinascimento, attenta a valorizzare l’uomo e i suoi sentimenti. In questo periodo inoltre la materia cavalleresca intende soddisfare le esigenze di una società aristocratica di gusti ricercati, più facile a entusiasmarsi per le narrazioni di amore e avventura, che per le vicende di guerra e di dedizione al dovere.  Nelle corti rinascimentali si continuavano ad ascoltare storie che avevano per protagonisti i cavalieri; non più però per esaltarne gli alti ideali, ma per divertire i nobili con il racconto delle loro strabilianti avventure. Ormai in quell’epoca, in cui cominciavano a diffondersi le armi da fuoco, la figura del cavaliere apparve definitivamente tramontata e con essa gli ideali a cui si ispirava.  Gli scrittori del XV e del XVI secolo capirono tale declino e lo descrissero nelle loro opere – che riprendevano i racconti epico-cavallereschi medioevali – ora con ironia, come Ludovico Ariosto nel suo Orlando Furioso; ora con nostalgia, come Torquato Tasso nella Gerusalemme Liberata; ora con ironia e nostalgia insieme, come lo spagnolo Miguel de Cervantes nel suo Don Chisciotte.
Ecco allora che Orlando, paladino di Francia, protagonista dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, non è più rappresentato come un valoroso difensore della fede, ma come un cavaliere che lascia il campo cristiano di Carlo Magno e la difesa di Parigi, travolto dalla passione amorosa per la bellissima Angelica, figlia del re del Catai.
Nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, invece, il cavaliere torna ad essere l’eroe animato da forti ideali religiosi, anche se tormentato de passioni terrene. Infine nel 1600 il Don Chisciotte dell’autore spagnolo Miguel de Cervantes segna la definitiva scomparsa del cavaliere medioevale. Don Chisciotte non è altro che una patetica figura di cavaliere che vive “da folle” avventure appartenenti a un mondo ormai passato.
Anche nei tre romanzi di Italo Calvino, del 1959,  che compongono il ciclo dei “Nostri antenati”: “Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante”, “Il cavaliere inesistente”; la figura del cavaliere medioevale è svuotata e quasi ridicolizzata. Il visconte dimezzato racconta di un valoroso cavaliere di Carlo Magno, Agilulfo, sempre pronto a combattere "per la santa causa", cioè per cristianizzare tutto il mondo attraverso le Crociate. Indossa una lucida armatura bianca, è incline alla perfezione e alla nobiltà d'animo, sempre pronto a risanare i torti, pieno di spirito e razionalità che però ha un unico difetto: non esiste! Ha una voce metallica e meccanica, è molto freddo, pignolo e perciò spesso abbastanza impaziente; è molto sincero, dice sempre la verità poiché è incapace di dire il falso. Inizialmente è molto razionale e calcolatore, pian piano riesce però a “umanizzarsi”, scoprendo di avere anch'egli dei sentimenti. Con questo libro Calvino ha voluto farci riflettere sulla condizione dell’uomo e su alcuni aspetti della realtà del nostro tempo: l’uomo d’oggi, infatti, privo d’identità, quasi inesistente, si può identificare nella figura del cavaliere inesistente. L’uomo appare di fatto incerto, insicuro, perplesso, privo di sicurezza, è vuoto dentro com’è vuota la bianca armatura d’Agilulfo. Altri temi che si possono trarre dal libro sono quello della ricerca di sé, quello della formazione dell’essere, quello del trovare il senso della vita nella realizzazione di un ideale e quello della guerra. Ma il tema fondamentale è certamente quello che non può esistere solo un’anima senza corpo, come Agilulfo o un corpo senz’anima, come Gurdulù. Solo attraverso l’unione di questi due importantissimi elementi si può parlare di vita. La figura di Rambaldo è il punto d’unione di questi due personaggi: egli, infatti, agisce secondo il corpo e si lascia guidare dalla sua anima. Morale di tutta la storia, “ ad essere s’impara”. Calvino ci narra le vicende di questo paladino, delle sue avventure  tra Francia, Scozia e Marocco e, dei suoi compagni di viaggio: la bella Bradamante (che si scoprirà poi essere la narratrice del romanzo), innamorata del cavaliere inesistente;  l’infuocato Rambaldo desideroso di vendicare il padre morto in battaglia; il giovane Torrismondo, alle prese con la ricerca dei Cavalieri del Sacro Graal e, lo scudiero di Agilulfo, Gurdulù. Nella caratterizzazione di questo personaggio viene palesata la genialità di Calvino: questi è infatti all’opposto del cavaliere inesistente. Gurdulù è un pazzo con il quale è praticamente impossibile avere qualsiasi tipo di comunicazione; lui, al contrario di Agilulfo, esiste, ma non sa di esserci. Il tutto viene descritto alla maniera di Calvino, in un Medioevo fiabesco, pregno di ironia e di grandi temi affrontati con la leggerezza di chi è capace di raccontare davvero.
Questo racconto vuole in realtà rappresentare una realtà sociale, cioè la conquista dell’essere, oggi divenuta molto difficile visto tutti i modelli che ci vengono proposti. Agilulfo che in verità era “vuoto” rappresenta la società di oggi, in cui l’uomo è sempre più “vuoto”, più superficiale e attaccato alle cose frivole come se fosse privo di qualcosa: ma non di qualcosa di piccolo ed insignificante ma probabilmente quello che si va sempre più dimenticando sono i valori fondamentali e basilari come lo può essere importante e basilare un corpo per un cavaliere. L’autore quindi, ci parla dell’uomo moderno, della sua solitudine e della totale impossibilità di autenticità. Temi come quello delle maschere, dell’inconsistenza, delle nevrosi corrono per le pagine di questo romanzo insieme a saraceni e paladini, a conventi e a giochi di parole; parole  mai difficili ma usate con la maestria di chi sa bene come farci venire voglia di girare pagina fino alla fine. Citando lo scrittore stesso:  “la pagina ha il suo bene solo quando la volti e c’è la vita dietro che spinge a scompigliare tutti i fogli del libro. La penna corre spinta dallo stesso piacere che ti fa correre le strade

lunedì 1 ottobre 2012

Avvio alla storia per alunni disabili





NOME_________________________COGNOME________________________

Ricopia i giorni della settimana.
LUNEDI’, MARTEDI’, MERCOLEDI’, GIOVEDI’, VENERDI’, SABATO, DOMENICA.
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Quanti sono i giorni della settimana?.......................................
A) Completa le frasi.
Se oggi è venerdì domani sarà __________________________________ .

Se ieri era mercoledì oggi è ____________________________________ .

Dopo la domenica arriva il  ____________________________________ .

Qual è il giorno della settimana che preferisci? _____________________.


Ricopia i mesi dell’anno.

GENNAIO, FEBBRAIO, MARZO, APRILE, MAGGIO, GIUGNO,
LUGLIO, AGOSTO, SETTEMBRE, OTTOBRE, NOVEMBRE, DICEMBRE.

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12.                    …………………………………..

Quanti sono i mesi dell’anno?.................................................

B) Completa l’elenco dei nomi dei mesi dell’anno.


1.Gennaio
2.Febbraio
3.________________________
4.Aprile
5.Maggio
6.________________________
7.Luglio
8.Agosto
9.________________________
10.Ottobre
11._______________________
12. Dicembre

C) In quale mese dell’anno si festeggia il tuo compleanno?
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D)Ricordi il compleanno di un familiare o di un amico? Ricordi in quale mese si festeggia? _______________________

domenica 30 settembre 2012

La Canzone dei Nibelunghi




Sull'esempio delle chanson de geste francesi, in area germanica viene composta la Canzone dei Nibelunghi, un poema in versi redatto nel Xlll secolo in volgare tedesco da un autore anonimo che riprende e orga­nizza antichi miti e leggende: nell'area nord europea queste narrazioni leggendarie di carattere epico basate su tradizioni popolari vengono det­te saghe.
L'opera è suddivisa in 39 canti costituiti da quartine (strofe di quattro versi] in rima baciata (AA BB] ed è ambientata nel v secolo d.C. nel ter­ritorio che costeggia il corso del fiume Reno. Essa è strutturata in due ampi nuclei narrativi, il primo dei quali ha come protagonista l'eroe Sig­frido e si conclude con la sua uccisione, mentre il secondo ruota intor­no alla moglie Crimilde e al suo progetto di vendicare la morte dell'amato.
La Canzone dei Nibelunghi ha una grande diffusione popolare, e grazie al ritrovamento di antichi manoscritti la sua fama cresce a partire dal XVlll secolo raggiungendo il suo apice nel Novecento, quando il compo­sitore Richard Wagner si ispira a essa per il suo ciclo di quattro dram­mi musicali intitolato L'anello del Nibelungo.
Protagonisti della Canzone dei Nibelunghi.
A differenza dei personaggi delle chanson de geste francesi, i protagonisti della Canzone dei Nibelunghi appaiono psicologicamente complessi e sono ca­ratterizzati da passioni violente e intense che spin­gono le loro azioni alle estreme conseguenze.
Brunilde è una delle valchirie di Odi­no, le fanciulle guerriere che affian­cano il re degli dèi. Regna in Islanda, è dotata di po­teri magici, è un'esperta guerriera e sottopone i suoi pretendenti a prove durissime. Quando scopre l'inganno di Sigfrido si vendica in modo terribile.
Crimilde è la sorella del re dei Burgundi Gunther. Sposa Sig­frido nonostante una profezia le abbia predetto la fine pre­matura dell'uomo e alla sua morte accetta le nozze con il re degli Unni Etzel (Attila). Inizialmente timida e gentile, dopo l'uc­cisione di Sigfrido è ani­mata da un violento spirito di vendetta.
 Gunther è re dei Burgundi e fratello di Crimilde. Ottiene la mano di Brunil­de grazie all'aiuto di Sigfrido a cui dà in sposa la sorella, ma tradisce l'an­tico compagno per sottrargli il tesoro dei Nibelunghi. È un uomo debole, insicuro e mol­to avido.
        Hagen vassallo di Gunther, si fa ri­velare da Crimilde il punto debole di Sigfrido e lo uccide a tradimento, poi seppellisce il tesoro dei Nibe­lunghi nel Reno per evitare che la donna lo usi per realizzare la sua ven­detta.
Sigfrido è un discendente del capo degli dèi Odino. Quando si immerge nel sangue del drago Fafnir diventa invulnerabile in tutto il corpo tranne che in un punto della schiena su cui si è po­sata una foglia. Aiuta Gunther a con­quistare Brunilde, sposa Crimilde e viene ucciso da Hagen. È giovane e bello e simboleg­gia il coraggio, la lealtà, la ge­nerosità e l'altruismo.
La trama
Sigfrido, figlio del re della regione del basso Reno, parte per impossessarsi dell'immenso tesoro dei Nibelunghi, una stirpe di nani che vive sotto ter­ra e conosce i segreti della fusione del ferro: nel corso del­la sua impresa Sigfrido sottrae al nano Alberico un cap­puccio magico che lo rende invisibile e gli dà la forza di dodici guerrieri, uccide il drago Fafnir e si bagna  nel suo sangue diventando quasi completamente invulnerabile, trannein un punto tra le scapole dove si è posata una foglia.. Conquistato il tesoro dei Nibelunghi, Sigfrido giunge alla corte dei Burgundi (stanziati lun­go il corso del fiume Reno), dove cerca di ottenere la mano di Crimilde, la sorella del re Gunther nota per la sua bellezza. Per raggiungere il suo scopo promette a Gun­ther di aiutarlo a conquistare la crudele regina d'Islanda Brunilde, che sottopone i suoi pretendenti a terribili prove di for­za e di coraggio.
Durante il torneo Sigfrido si rende invisi­bile e sconfigge Brunilde, costringendo­la a sposare Gunther che crede il vero vin­citore della sfida. Grazie alla sua impre­sa anche Sigfrido può sposare Crimilde e tornare con lei nella sua terra. Trascorsi dieci anni, le due coppie si ri­trovano, ma nel corso di una violenta lite Crimilde rivela a Brunilde l'inganno che si cela dietro le sue nozze, suscitando in lei un furioso spirito di vendetta. L'odio nei confronti di Sigfrido dilaga e coin­volge anche Gunther, che vuole elimina­re l'antico alleato per impadronirsi del suo tesoro; quando il vassallo Hagen scopre il suo punto debole Sigfrido viene ucciso e i due rubano il tesoro dei  Nibelunghi, na­scondendolo nel letto del fiume Reno. Rimasta vedova, Crimilde accetta di spo­sare il re degli unni Etzel (Attila) ma non riesce a vendicare la morte del primo marito; dodici anni dopo, in occasione della nascita del primoge­nito, invita i Burgundi alla sua corte e durante i festeggiamenti li fa ster­minare tutti.
Solo Hagen e Gunther vengono risparmiati e sono condotti da Crimilde che, dopo aver fatto decapitare il fratello, chiede ad Hagen di svelarle il luogo dove è nascosto il tesoro.
Al suo rifiuto, Crimilde decapita Hagen con la spada di Sigfrido, ma vie­ne uccisa a sua volta da Ildebrando, un maestro d'armi degli Unni indi­gnato dalla crudeltà della donna: la conclusione del poema realizza un'an­tica profezia secondo cui l'oro dei Nibelunghi è maledetto e procura mor­te e rovina a chi cerca di possederlo.

La storia
Nel poema gli elementi mitici e leggendari risalenti alla tradizione ger­manica e scandinava si intrecciano a un nucleo storico che viene riela­borato in modo fantasioso.
Nella prima metà del v secolo il popolo dei Burgundi conquista la riva si­nistra del Reno in precedenza controllata dai Romani e vi si insedia sta­bilmente. Qualche decennio dopo i Burgundi vengono attaccati e scon­fitti dagli Unni, una popolazione nomade e guerriera proveniente dall'Asia e guidata da Attila. I superstiti sono costretti a spostarsi verso ovest, nel territorio dell'attuale Francia che da loro prende il nome di Borgogna. Lo sterminio dei Burgundi durante i festeggiamenti alla corte degli Unni rappresenterebbe quindi in modo simbolico la fine dell'egemonia bur­gunda e l'affermarsi nel loro territorio di un nuovo popolo di domina­tori.
Nella Canzone dei Nibelunghi ritroviamo diversi temi tipici dei poemi ca­vallereschi, quali l'esaltazione del coraggio e della forza fisica e l'inter­vento di forze magiche e soprannaturali nelle vicende umane
Ma l’opera è un’epopea pagana che rappresenta un mondo feroce, crudele, spietato in cui i sentimenti dominanti sono: l’odio, l’invidia, il desiderio di potere e la sete di vendetta. E’ questo un valore cultu­rale specifico delle antiche popolazioni germaniche, lo spirito di ven­detta spinge Brunilde a far uccidere Sigfrido e Crimilde a provoca­re lo sterminio del suo stesso popolo.
La legge germanica prevede infatti che chi ritiene di essere stato dan­neggiato da qualcuno possa vendicarsi con un'azione personale, per co­stringere chi gli ha procurato il danno a espiare la propria colpa. Que­sto meccanismo si chiama faida e può coinvolgere due individui, ma an­che due clan (famiglie allargate) o addirittura due territori: per questo motivo le azioni compiute da Brunilde e Crimilde, che a noi paiono cru­deli ed eccessivamente violente, sono invece perfettamente coerenti con i valori e la cultura della società in cui esse vivono.
L’unico personaggio che non si macchia di delitti e viltà è Sigfrido che rappresenta il nobile e perfetto cavaliere, valoroso, generoso e leale, dotato di tutte le virtù tipiche del mondo cortese e cavalleresco del XIII secolo

Il Cantare del mio Cid: il più importante poema epico spagnolo.



Il poema del mio Cid  è il più importante poema epico spagnolo e, come  la Chanson de Roland, celebra la difesa della cristianità occidentale contro gli arabi invasori.
Ne è protagonista Rodrigo Diaz de Vivar, che è realmente vissuto e che è considerato un eroe nazionale per aver compiuto straordinarie imprese contro glia Arabi che occupavano la Spagna. Rodrigo Diaz conte di Bivar, meglio conosciuto con il nome di Cid  Campeador, nacque, intorno al 1040 d.C., a Bivar, un paesino vicino a Burgos nel regno di Castiglia. Proveniva da una famiglia della piccola nobiltà castigliana. Crebbe  alla corte del Re di Castiglia ed ebbe una buona educazione, come si addiceva ai figli della nobiltà. La leggenda vuole che al momento del suo battesimo un monaco gli regalasse il cavallo che poi lo accompagnò in tutte le sue avventure: il famoso Babieca.
Il nome El Cid Campeador gli venne attribuito più avanti. È composto da due parti: El Cid, nomignolo datogli dagli arabi e che significa "Il signore" in una lingua mista di spagnolo e arabo, Campeador, “il campione", invece, gli venne dato dagli spagnoli dopo le sue  vittorie. Questo soprannome, quindi, dimostra che il personaggio godeva del rispetto e dell'ammirazione sia tra gli spagnoli che tra gli arabi.
Come la Chanson de Roland è il poema della cristianità e delle gesta dei paladini in difesa della patria, questo è il poema della fedeltà assoluta al proprio re, che viene mantenuta nonostante le amarezze e le delusioni.
Il protagonista, Rodrigo Diaz de Bivar detto il Cid Campeador (signore del campo di battaglia), è un vassallo di re Alfonso VI di Castiglia che, all'età di quarant'anni circa, viene accusato ingiu­stamente di essersi appropriato di somme spettanti al re e viene esiliato dopo la confisca dei suoi beni. Il Cid incarna l'ideale del perfetto vassallo fedele e one­sto anche se umiliato. Messo al bando, compie imprese in nome del re, conquista castelli e territori e attira sempre nuovi seguaci. Si impadronisce della città di Valenza, creando un nuovo feudo cristiano, e a ogni nuova conquista invia doni al re chiedendone il perdono, che infine giunge. Il re stesso esorta Rodrigo Diaz a concedere la mano delle sue figlie a due principi eredi della grande casa feudale di Carriòn, che in realtà mirano soltanto alle ricchezze del Cid. Questi accontenta il re, anche se ritiene indegni i due futuri generi. Celebrato il matrimonio, i due infanti di Carriòn nel con­durre le spose nella propria terra le brutalizzano e le abbandona­no in un bosco, ritenendo disonorevole il matrimonio con le figlie di un esule. Ma il Cid si vendica chiedendo, di fronte all'assemblea dei grandi di Spagna, la restituzione del patri­monio consegnato ai generi. Il re concede giustizia e le figlie sposeranno in seguito i principi di Navarra e di Aragona e diventeranno regine.
Questa è la trama del poema. Le vicende sono storiche ma trasfigurate dalla fantasia popolare.
Anche di questo testo non si conosce con sicurezza l'autore; probabilmente si trattava di un cantore girovago vissuto nel XII secolo, cinquant’anni dopo la morte del Cid.
Tizona, la spada dell'eroe spagnolo è tuttora conservata a Madrid nel museo dell'esercito. Grande fama ha in Spagna anche il cavallo del Cid, Babieca, a cui sono stati dedicati monumenti e leggende.
Il Cantare del mio CId: il poema
Il poema del mio Cid è un poema epico formato da 3733 versi di un autore anonimo risalente al 1140, è considerato il primo documento letterario spagnolo perché scritto in antica lingua castigliana da cui deriva lo spagnolo moderno. Il manoscritto fu ritrovato soltanto alla fine del Settecento, privo delle prime pagine, recava la data del 1307 e il nome di Peter Abbat, un giullare o forse un copista.
Il poema narra fatti fondati sulla realtà storica, anche se ampiamente romanzati, e si compone di tre canzoni (cantares):la canzone dell’esilio (El cantar del destriero),la canzone delle nozze (El cantar de las bodas) e la canzone dell’oltraggio di Corpes (El cantar de la afrenta de corpes).
Nella prima parte Rodrigo Diaz (El Cid Campeador), vassallo del re, viene accusato da cortigiani maligni di essersi appropriato di una parte dei tributi dovuti dai mori ad Alfonso VI. Esiliato dal re,lascia la moglie Jimena e le figlie Elvira e Sol nel monastero di Gardena e vaga per la Spagna con un gruppo di amici fidati, compiendo imprese a danno dei mori fino alla riconquista di Valencia. Nella seconda parte le sue figlie vanno in spose agli infanti di Càrion, due uomini senza scrupoli, che, umiliati dal Cid durante una festa di corte, nella terza parte del poema, decidono di vendicarsi oltraggiando le loro spose e lasciandole in preda alle belve feroci. Le due donne vengono poi salvate da Felez Munoz nipote del Cid, il quale sfida i due infanti a duello e li uccide. Il poema si conclude con il Cid che riottiene le sue terre, mentre le figlie vanno in spose ad altri due infanti di più nobile carattere.
Il Cantare del mio CId: i temi fondamentali
Il Cantare del Cid celebra innanzi tutto le gesta eroiche dei combattenti della Reconquista.
Il poema permette, inoltre, di comprendere i valori morali, le virtù tipiche della società feudale di quel tempo come:
-         il senso dell’onore e della giustizia;
-         la fedeltà e la lealtà del cavaliere verso il proprio signore e il proprio sovrano;
-         la fede in Dio